“L’ondata di violenza sulle donne e di femminicidi non si fermerà con una legge”. Il commento politico più adeguato sul caso di cronaca che in questi giorni sta sconvolgendo l’Italia arriva da Carlo Calenda. Le leggi, strumento amato dalla politica per il suo potere di regalare titoli di giornale, non hanno la capacità di cambiare radicalmente e immediatamente i comportamenti umani, gli usi e i costumi – anche i peggiori – della nostra società.
Negare questa evidenza è irrispettoso innanzitutto proprio verso le vittime di violenza di genere e le famiglie in lutto. È lucrare politicamente sulle loro tragedie, senza veramente curarsi di comprendere che il passo che dobbiamo fare va ben oltre una legge statale.
Perché in casi come questo la sua funzione si esaurisce nella risposta mediatica alla cronaca, non vale nulla più dell’inchiostro con cui viene scritta. Senza andare molto lontano basti ricordare alla legge anti-rave, solo un esempio delle tante che il Governo Meloni ha fatto seguendo questo paradigma.
La violenza sulle donne è un fatto molto più complesso. Ricorda giustamente Calenda che “nasce dalla confusione tra amore e dominio e dalla posizione subordinata e dunque dipendente che la donna continua ad avere, al di là della legge, nella realtà della nostra società”.
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E invece, anche nel tragico caso della storia di Giulia, la classe politica è tornata a ‘sciacallare’. Scalpita per agire. Vuole instituire un’ora di insegnamento sull’affettività a scuola, inasprire le pene, varare corsi di laurea. Queste non sono di per sé cattive politiche. Il problema però è l’attuazione: “Insegnare i valori dell’affettività a scuola, ad esempio, non è che un titolo. Lo svolgimento è un’impresa umana e culturale difficilissima”, insiste il leader di Azione.
Ed è proprio questa difficoltà che dobbiamo ammetterci, dirci senza menzogne (spesso raccontate a noi stessi) che il problema che ci si pone davanti è di smisurata complessità. Le soluzioni facili e immediate non potranno mai portare a nulla. E questa ammissione sarebbe il primo, e più importante, segno di rispetto verso tutte le vittime. Dobbiamo riflettere accuratamente su quali politiche implementare, e ancor di più sul come, altrimenti il rischio è di continuare a fare della povera retorica, che riempirà sì le prime pagine dei giornali, ma non porterà ad alcun cambiamento.