La prospettiva di un’imminente crisi si palesa a Francesco Giavazzi in una tranquilla giornata di luglio. Era mercoledì 13 dell’anno precedente, e le strade vicino a Palazzo Chigi erano gremiti di tassisti infuriati, mentre nell’aria aleggiavano i lacrimogeni della polizia. Il motivo era una serie di proteste contro un disegno di legge sulla concorrenza che minacciava di ridurre le protezioni nel settore, una lotta che il Paese perseguiva da lungo tempo.
Pochi giorni dopo, l’ex banchiere centrale, Mario Draghi, fu costretto a presentare le dimissioni al Quirinale il 21 luglio. La scintilla della crisi sembrava inizialmente di poco conto. A seguito di un’intervista rilasciata il 29 giugno al Fatto, il sociologo Domenico De Masi rivelò che Beppe Grillo aveva chiesto al premier di destituire Giuseppe Conte dalla leadership dei Cinque Stelle. Draghi non smentì la notizia, e tutti sapevano che i rapporti tra Draghi e Conte erano tesi. Il primo nutriva scarsa stima per il secondo, mentre il leader dei Cinque Stelle considerava Draghi un usurpatore della sua poltrona a Palazzo Chigi.
Tuttavia, la fine del governo Conte e l’ascesa di Draghi furono frutto di altri eventi. In primo luogo, la pianificata volontà di Matteo Renzi, che fin dall’inizio aveva annunciato pubblicamente di far durare il governo solo un anno, e da Sergio Mattarella, convinto che fosse necessaria una larga coalizione per affrontare l’emergenza pandemica. La crisi del governo giallorosso si intensificò quando la campagna di vaccinazione contro il Covid stentò a decollare, con solo ottantamila somministrazioni al giorno e lenta progressione. Il commissario Domenico Arcuri, incaricato di gestire l’emergenza, si trovò in difficoltà a causa delle polemiche riguardanti gli acquisti di banchi a rotelle inutili per le scuole e presunti appalti oscuri per le maschere in Cina. La promessa di costruire prefabbricati a forma di primula nelle piazze italiane non venne mai mantenuta. L’arrivo di Francesco Paolo Figliuolo, scelto da Draghi per gestire l’emergenza, comportò lo smantellamento di questa iniziativa propagandistica.
La gestione dell’emergenza Covid fu solo il primo dei tre grandi problemi che Mattarella chiese a Draghi di affrontare. Era necessario rivedere il Piano di Ripresa negoziato da Conte con l’Europa nei mesi precedenti e rilanciare un’economia devastata dalla crisi più grave dai tempi del dopoguerra. Ogni volta che Mattarella incaricava Draghi di toccare i nervi scoperti del sistema italiano, i partiti politici mettevano in difficoltà il premier. Questo accadde quando Draghi sfidò il rifiuto dei sindacati scolastici di far rientrare gli studenti in classe, invece di riaprire i ristoranti come voleva la destra. Accadde anche quando Draghi propose riforme sul catasto e il fisco, quando cercò invano di tagliare i generosi incentivi edilizi e quando il governo decise di liberalizzare il settore dei taxi come parte di una riforma più ampia sulla concorrenza.
Ripensando alla rivolta avvenuta un anno prima, possiamo comprendere meglio la parabola di Draghi. Negli ambienti di Palazzo Chigi, Francesco Giavazzi era affettuosamente soprannominato “Gandalf”, in riferimento al saggio personaggio del Bianco Consiglio de “Il Signore degli Anelli” che combatteva contro il male nella Terra di Mezzo. Più pragmaticamente, Giavazzi era l’uomo di fiducia di Draghi, l’amico di una vita, colui che aveva in mano i dossier più importanti. Uno di questi riguardava la difficile questione della concorrenza, che Draghi cercò di affrontare fino all’ultimo, incoraggiato da Mattarella a governare al massimo delle sue capacità dalla presentazione delle dimissioni fino alle elezioni.
Il 15 settembre, a dieci giorni dalle elezioni, Draghi portò in Consiglio dei ministri il decreto legislativo sulla mappatura delle concessioni balneari, una questione irrisolta da dieci anni, per la quale l’Europa aveva aperto una procedura di infrazione. Tuttavia, per segnare una distanza da questa iniziativa, il ministro leghista Massimo Garavaglia minacciò dimissioni poco più che simboliche, nonostante gli scatoloni fossero pronti. Come conseguenza, Daniela Santanché, storica compagna di Flavio Briatore al Twiga di Marina di Pietrasanta, ottenne il suo posto nel nuovo governo.
Europa e alleanze: la fallimentare strategia di Meloni
In sostanza, la sorte del governo Draghi non fu molto diversa da quella che aveva colpito Mario Monti dieci anni prima. Appena passata l’emergenza, i partiti ripresero lo spazio politico che pochi mesi prima avevano ceduto al premier tecnico. Ci furono alcune differenze: il governo Monti durò 529 giorni, mentre quello di Draghi sopravvisse per 616 giorni. Monti fu chiamato a ridurre la spesa dopo una grave crisi finanziaria, mentre Draghi ebbe l’opportunità di aumentarla, lasciando il Paese in una fase di robusta ripresa. Entrambi furono congedati nel tentativo di aumentare la concorrenza nei mercati protetti. Tuttavia, ci furono due fatti politici significativi che segnarono i venti mesi tumultuosi di Draghi: l’elezione del successore di Mattarella e la guerra in Ucraina.
In una conferenza stampa durante il Natale 2021, Draghi si lasciò sfuggire: “Sono un nonno al servizio delle istituzioni.” Questa battuta apparve come una sua autocandidatura. Da quel momento, i rapporti con i partiti politici non furono più gli stessi. L’incidente più significativo avvenne il 19 luglio, due giorni prima delle dimissioni, durante un incontro con Forza Italia e Lega, quando Antonio Tajani fece un lapsus, riferendosi a Draghi come “Mario, qui nessuno mette in dubbio la tua malafede”. Questo momento segnò la fine del sostegno del partito di Berlusconi e della Lega. Poco meno di un mese dopo l’intervista di De Masi, i problemi con i Cinque Stelle furono il pretesto perfetto per indire nuove elezioni. Il paradosso della storia fu che Giorgia Meloni dovette assistere impotente alla crisi: se fosse stata per lei, Draghi sarebbe dovuto rimanere al governo fino alla fine naturale della legislatura, nell’estate del 2023. Anche molte delle questioni legate al Recovery Plan sarebbero state gestite dall’ex banchiere centrale. Tuttavia, la ditta Salvini-Tajani impose un ultimatum a Draghi: “O noi o i Cinque Stelle.” Ma si trattava di una falsa alternativa, poiché senza i Cinque Stelle al governo, sarebbe venuto meno anche il sostegno del Partito Democratico di Enrico Letta, con cui Draghi si era incontrato poche ore prima.
Un anno dopo la fine del governo, oltre a alcuni successi indiscutibili, l’eredità di Draghi rimase nelle mani di Giorgia Meloni e di coloro che sarebbero diventati suoi vice a Palazzo Chigi. L’unico elemento immutato fu il sostegno incondizionato all’Ucraina e la fine della dipendenza italiana dal gas russo. Questo è testimoniato dalla nave rigassificatrice ormeggiata di fronte al porto di Piombino, contro la quale il sindaco di Fratelli d’Italia aveva protestato, e dalla fine delle ambigue esternazioni di Salvini a favore di Putin. Durante i venti mesi trascorsi a Palazzo Chigi, Draghi dovette anche confrontarsi con le controversie scatenate da un viaggio a Mosca, programmato per il leader leghista dall’ambasciata a Roma. Alla fine, Draghi riuscì a sconfiggere il “putinismo” nella politica italiana, ma non fu in grado di scalfire il corporativismo che persisteva.