Siamo ciò che diventiamo, diceva Nietzsche. E La Regina Elisabetta, salita al trono nel 1952, quando Truman governava gli Stati Uniti e Stalin guidava l’Urss, è riuscita per settant’anni a portare avanti dignitosamente la sua missione, senza tradire sé stessa, i suoi princìpi, l’educazione ricevuta. Fatti storici rilevanti, come la pandemia, e le tempeste, che via via hanno ‘sporcato’ l’immagine della Royal Family (dalla morte di Lady Diana alla scandalo sessuale che ha travolto il principe Andrea, fino ai colpi di testa dell’adorato nipote Harry), non ne hanno fiaccato lo spirito. Sua Maestà con caparbietà ha sempre svolto il suo lavoro. Eh già, così lo definiva: «Un lavoro a vita». Anche nel tardo periodo del suo regno, quando la maggior parte delle persone della sua età è in pensione, la sovrana si è destreggiata tra i vari impegni, dando a tutti la stessa importanza. Poteva essere un saluto ad un ambasciatore, una cerimonia di investitura o un pranzo con qualche capo di stato. Ed è questo forse che ce l’ha resa tanto cara: non eravamo pronti a dirle addio e ci metteremo un bel po’ prima di abituarci all’idea che oggi ‘Lilibeth’, come la chiamava con amore il principe Filippo, non ci sia più.
Chi scrive non nutre alcuna nostalgia per la monarchia, non si tratta di questo. Converrete che siamo nati, cresciuti e diventati adulti in una epoca convulsa, in un mondo in cui tutto è cambiato e muta forse fin troppo rapidamente. Tra le poche certezze, c’era lei, la regina, dietro le finestre di Buckingham Palace. Sempre al suo posto, con un invidiabile senso di responsabilità. Perché diciamolo chiaramente: oggi si fa un gran parlare di diritti (ed è sacrosanto), ma meno dei doveri che toccano a ciascuno. Ecco, Elisabetta II, che ha accompagnato quattro generazioni di britannici, è stata una donna forte in un mondo di uomini. Poteva piacere o meno, ma ha sempre regnato con coraggio, facendo della pacatezza la sua cifra. Sua Maestà non ha rinunciato alla sua femminilità, anzi ha trovato nelle ‘divine’ frivolezze un punto di forza: così i completi color pastello, ad esempio, o la borsetta (che ha spesso stuzzicato la curiosità per il suo possibile contenuto), sono diventati molto più che un’appendice del personaggio. Anzi tali particolari hanno animato quella che ad oggi, senza esagerazioni, possiamo definire una icona pop, l’ultimo baluardo di quel secolo breve, ma intenso, che è stato il Novecento.
Con la morte della Regina (fa impressione scriverlo, perché si è sempre guardato a lei come a qualcosa di immortale, di eterno), si chiude l’ultimo importante capitolo. Un’era a cui guardiamo anche con un pizzico di invidia: Elisabetta II ha cominciato il suo “lavoro” da sovrana incontrando una volta alla settimana Winston Churchill, «l’uomo a cui dobbiamo un bel pezzo della nostra libertà», come ha scritto nel suo editoriale uscito su «La Ragione» Fulvio Giuliani.
Churchill, che all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, è stato più volte citato sui social per la frase «la persona conciliante è uno che nutre il coccodrillo nella speranza che lo mangi per ultimo». Un motto che fa capire quanto sia giusto insistere oggi con le sanzioni alla Russia e condannare i “pacificatori”, proprio perché le concessioni rendono più forte il tiranno e più debole chi le fa. Churchill, che ha sempre avuto un debole per Elisabetta II, di cui ammirava l’ansia di vivere e la serietà con cui accettò il proprio destino, nel privato pare la chiamasse teneramente Schirley Temple. Si conobbero a Sandrigham per il Natale del 1927 e Churchill, come racconta Andrew Morton nel libro “The Queen” (Rizzoli) ne rimase impressionato, tanto da arrivare a scrivere alla moglie Clemmie: «Ha un’aria di un’autorità e pensosità che appare stupefacente per una bambina di questa età». Non era nata per essere regina Elisabetta, ma di fronte alla Storia (quella con l'”S” maiuscola) non si tirò indietro. Anno dopo anno, la ragazzina divenne una donna al servizio h24 dei suoi sudditi, moglie, madre e nonna di vari nipoti e bisnipoti. «Anche quando cammina libera per i campi, pure lì nella sua solitudine, lei è la Regina», i versi di Mary Wilson, consorte di uno dei suoi ministri preferiti.
Nel tempo, Elisabetta II ha imparato che la sua era una posizione molto solitaria, anche se tutti avevano bisogno di lei. E Churchill la stimava profondamente: la trovava astuta, cauta. Fu per Lei forse quello che Lord Melbourne è stato per la Regina Vittoria. A cose fatte possiamo scriverlo, senza girarci attorno: Churchill è stato il primo ministro perfetto per la giovane sovrana, che priva di esperienza e non istruita nelle cose di governo, potè godere dei preziosi consigli di quel grande politico che con intransigenza mai accettò di discutere di qualsiasi cosa con Hitler o con i suoi rappresentanti. Altri tempi, altri politici. Sì, perché l’amarezza per la scomparsa di sua Maestà, che ha scelto di morire a Balmoral, lì dove ha collezionato i suoi ricordi più felici, si accompagna oggi alla triste consapevolezza che un’altra come lei, regina delle regine, non ci sarà. Elisabetta non è stata solo spettatrice della storia del suo Paese, ma è divenuta la storia stessa.