di Mimmo Cacciola
È in libreria il libro autobiografico di Gemma Capra, edito da Mondadori dal titolo «La crepa e la luce». A 50 anni dall’uccisione del commissario Luigi, a seguito della vicenda della morte dell’anarchico Pinelli, la vedova del poliziotto si racconta iniziando un doloroso quanto mai necessario percorso di vita e di perdono che a partire da quel 17 maggio del 1072, arriva fino ai giorni nostri.
Cinquanta anni fa, esattamente il 17 maggio 1972, Gemma Capra moglie del commissario Luigi Calabresi resta vedova con due figli piccoli, uno in arrivo ed un’esistenza distrutta dal dolore di una vicenda piena zeppa di odio, strascichi giudiziari, fazioni di una Italia ancora una volta divisa, come ai tempi di Guelfi e Ghibellini, in rossi e neri, buoni e cattivi. Da quella vicenda personale che fu per tutti anche collettiva, Gemma Capra Calabresi, su invito ed insistenza del figlio Mario Calabresi, giornalista e scrittore di successo, ha tratto un bel libro dal titolo «La crepa e la luce» (Editore Mondadori, Collana Strade blu, Non Fiction, pagg.144, € 17,50) che ripercorre quei giorni e che in fondo ci racconta anche un pochino di noi, di come eravamo e in cosa speravamo. “Questo libro è il racconto di un cammino, – si legge nelle note licenziate dall’editore – quello che Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, ha percorso dal giorno dell’omicidio del marito, cinquant’anni fa. Una strada tortuosa che, partendo dall’umano desiderio di vendetta di una ragazza di 25 anni con due bambini piccoli e un terzo in arrivo, l’ha condotta, non senza fatica, al crescere i suoi figli lontani da ogni tentazione di rancore e rabbia e all’abbracciare, nel tempo e con sempre più determinazione, l’idea del perdono. Un racconto che, partendo dalla vita di una giovane coppia che viene sconvolta dalla strage di Piazza Fontana, attraversa mezzo secolo, ricucendo i momenti intimi e privati con le vicende pubbliche della società italiana. Un’intensa e sincera testimonianza sul senso della giustizia e della memoria. Una storia di amore e pace”.
Da questo cammino verso la riconciliazione scaturiscono ricordi, pensieri, dolori, immagini ormai sbiadite, prese di coscienza che ci coinvolgono un po’ tutti. Certe stagioni vanno archiviate certo, purché si conservi sempre memoria e consapevolezza del senso storico che le spiega e del momento che le ha partorite. Affinché certi errori non si ripetano e certe inumane ed inutili sofferenze non siano più inflitte ad innocenti. Sul «Corriere», leggiamo una bella intervista di Aldo Cazzullo alla protagonista vivente di quella vicenda, che appassionò e rese triste quasi tutta l’Italia, tifoserie politiche comprese.
“Gemma, quando vide per la prima volta suo marito Luigi Calabresi?” «Era il Capodanno del 1968, non avevo ancora ventidue anni. I miei erano a Courmayeur, io ero da sola a Milano e non avevo niente da fare. La mia amica Maura insistette perché la accompagnassi a una festa. Lo vidi subito, all’ingresso, e dissi alla mia amica Maura: “Guarda quello, mica male…”». Com’era? – chiede sempre Cazzullo – «Elegante: doppiopetto scuro, con un righino leggero bianco. Ci ha sempre tenuto molto. Alto, prestante: un bell’uomo. Per tutta la sera ballò solo con me. Poi andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Lui mi tolse il bicchiere, lo posò, e mi diede un bacio». E lei? «Io avevo avuto qualche piccolo flirt, ma non mi era mai successo nulla del genere. Amore a prima vista. Mi chiese il numero di telefono. Risposi veloce: “4042334, e non te lo ripeto”. Il giorno dopo Gigi mi chiamò. L’aveva tenuto a mente». Sulla copertina del suo libro «La crepa e la luce» c’è la foto del vostro matrimonio. «Ci sposammo il 31 maggio 1969, la prima data in cui il nostro parroco, don Sandro, aveva la chiesa libera. Al ritorno dal viaggio di nozze in Spagna aspettavo già Mario. Abbiamo fatto tutto in fretta, e ora so perché». Perché? – la incalza ancora il giornalista – «Perché avevamo poco tempo. E tutto nella vita ha un tempo, e un senso. Siamo parte di un disegno. Volevamo molti figli, ed era giusto così, perché ognuno di loro ha un compito, ognuno ha da fare cose importanti per se stesso, per Dio, per gli altri. I miei figli sono il dono più bello».
Il senso del tempo. Il senso della storia. Il senso di fare solo ed esclusivamente il proprio dovere anche nonostante l’impotenza verso chi non solo non lo fa, quel dovere di uomo di stato, ma addirittura lo stravolge e travolge, trascinando vite e storie personali e collettive, innescando una tragica spirale di atti sanguinosi. E l’intervista di Cazzullo si infila nei meandri bui di quegli anni col sapore di piombo e polvere da sparo, di animi che si scaldano per nulla e di vendette minacciate ed annunciate ed infine eseguite. “Piazza Fontana. La morte di Pinelli. Suo marito gli aveva mai parlato di lui?” – azzarda Aldo il giornalista curioso – «Sì. Si conoscevano bene, si regalavano libri a Natale. Commentavano i fatti, discutevano. Gigi si fermava sempre a parlare con i ragazzi fermati dopo i cortei, anche se il suo capo, Allegra, lo rimproverava. Voleva capire perché gettavano le molotov, perché si armavano. Dopo la sua morte ho ricevuto molte lettere di genitori e anche di giovani che volevano ringraziarlo per questo. Di recente al Miart di Milano ho incontrato uno scultore, un mio coetaneo, che mi ha detto: “Suo marito mi ha salvato, altrimenti avrei preso il mitra”. Era un ragazzo arrivato a Milano dal Sud, figlio di poliziotti, tentato dalla lotta armata…». Cosa le disse suo marito della morte di Pinelli? – chiede ancora Cazzullo – «Quello che gli raccontarono i suoi colleghi: che era caduto. Lui non era nella stanza. Dalla morte di Pinelli era distrutto. Quella notte non chiudemmo occhio. Quella, e tante altre notti».
Cominciò la campagna contro di lui. «Trovavo le scritte sui muri vicino a casa, nella discesa verso la metro: “Calabresi assassino”, “Calabresi sarai giustiziato”, “Calabresi farai la fine di Pinelli”».
Un clima avvelenato. Da una parte loro i cattivi in divisa, tuttavia pur sempre figli di quel proletariato escluso che sognava un piccolo ascensore sociale. Dall’altra i “buoni” che volevano cambiare il mondo. Nel mezzo tutti quelli che cercavano solo di fare il proprio dovere e pur conservando idee proprie e dirittura morale per i casi strani della vita e del destino finiscono per incontrarsi e scontarsi come particelle atomiche in cerca di esplosione nel disegno impazzito della storia: come Calabresi e Pinelli che, loro malgrado, diventano (scambiandosi anche di ruolo) vittime e carnefici inconsapevoli. L’intervista lunga, interessante (a noi piace darne solo qualche estratto) non concede sconti e così il giornalista si fa sotto.
“Non aveva paura?” – chiede a bruciapelo Cazzullo – «Sì, ne aveva». Però non portava la pistola. «La teneva smontata, in un cassetto, tra i maglioni. Diceva che tanto l’avrebbero colpito alle spalle». Come ricorda il 17 maggio 1972? «Era uscito, poi era tornato indietro per cambiarsi la cravatta. Ci ha sempre tenuto molto. Quella mattina aveva pantaloni grigi, giacca scura con i bottoni di madreperla, e una cravatta di seta rosa. La cambiò con una bianca e mi chiese: come sto? Stai bene Gigi ma stavi bene anche prima, gli risposi». E lui? «Sì, ma questo è il segno della mia purezza. È l’ultima frase che mi ha detto. La frase che mi ha lasciato». Lei ebbe segni di ostilità, ma anche di solidarietà. – precisa Cazzullo – «Ogni giorno arrivava un pacco con un regalo per i bambini. Un bavaglino per Mario, una tutina per Paolo, una copertina per Luigi che doveva ancora nascere. Ma siccome all’obitorio indossavo un cappottino rosso, la prima cosa che avevo trovato per coprirmi in un maggio ancora freddo, dalla Sicilia mi scrissero: “Svergognata!”. Una coppia di amici di Gigi mi mandò una lettera di due pagine. Nella prima c’erano frasi di circostanza, che finivano con un “d’altronde”. Nella seconda pagina era scritto: “Chi la fa l’aspetti”. Mi sono sempre chiesta perché. Perché volessero ferirmi come se fossi la moglie di un assassino». Nel necrologio lei scrisse le parole di Gesù in croce: «Perdona loro, perché non sanno quello che fanno». «Il cardinale di Milano Colombo disse che quelle parole erano un fiore che sarebbe fiorito nel tempo. E così è stato. Ma ci ho messo tutta la vita a perdonare. All’inizio volevo, al contrario, vendicarmi. Se ripenso a quella ragazza e alla sua rabbia provo tenerezza. La cosa più importante della mia vita è stata questo cammino della pacificazione e del perdono, durato cinquant’anni».
Poi il processo, gli incontri con gli autori del delitto, vittime anche loro di se stessi, della storia, della macroscopica incomprensione di una ideologia deviata. Ferma come una stella Polare, Gemma Calabresi pensa ai figli, a proteggerli, a dare loro un nuovo papà, un poco di serenità e stabilità, perpetuando una memoria del padre non da santificazione quanto di pura e semplice ricerca della verità e, dunque, di giustizia. “Nel 1988 finirono in carcere – va verso la conclusione Cazzullo – per il suo assassinio gli ex militanti di Lotta continua Marino e Bompressi, e gli ex dirigenti Sofri e Pietrostefani”. «Dicevo che avrei dato dieci anni di vita in cambio della verità. Me ne hanno portati via undici. I processi furono il mio calvario». I giornali erano quasi tutti innocentisti. «È vero. Però nessuno ha mai scritto una riga contro di noi. Ai figli avevo detto: riabiliteremo papà con il nostro comportamento e con il nostro amore. Saremo come lui ci voleva. Dovranno riconoscere: una persona che ha avuto una moglie e dei figli così non può aver ammazzato qualcuno, non può aver gettato un altro uomo dalla finestra. Il manifesto contro il «commissario torturatore» fu firmato dai più importanti intellettuali italiani. Alcuni, da Paolo Mieli a Eugenio Scalfari, hanno chiesto scusa. Altri, come Fulco Pratesi, mi hanno assicurato che non sapevano niente: erano iscritti a gruppi che aderivano e davano i nomi dei soci. Altri ancora, quando li ho incontrati, non mi hanno vista, o hanno fatto finta di non vedermi. Ma ora sono in pace con tutti».
Però i condannati non le hanno chiesto perdono – precisa l’intervistatore – «Questo per me non ha alcuna importanza. Il perdono non si chiede, si dà. Chi era Luigi Calabresi? Era un poliziotto che amava il suo lavoro, e ne conosceva i rischi. Era una brava persona, ma una persona normale». Infine il perdono che alleggerisce tutto e riporta alla giusta dimensione le cose anche viste in prospettiva. Un perdono sofferto, certo, ma conquistato con le unghie e con i denti giorno dopo giorno in un cammino lungo 50 anni. Che forza e coraggio, che esempio e che ammaestramento per tutti, quello di Gemma Calabresi. Da ricordare. Chiude, Aldo Cazzullo, la sua intervista con la protagonista del libro «La crepa e la Luce» ricordando quell’importante e commovente incontro.
“Lei ha incontrato la vedova Pinelli, grazie a Napolitano”. «Per decenni hanno tentato di contrapporci, di presentarci come nemiche. Invece eravamo solo due donne che si erano ritrovate vedove, lei con due figlie. Quando sono arrivata al Quirinale era già là, seduta. Ci siamo date la mano. Poi si è alzata e ci siamo abbracciate. Io ho detto: finalmente. Licia ha risposto: peccato non averlo fatto prima». Lei chiude il libro dicendo che senza quella tragedia oggi sarebbe una persona peggiore. Perché? «Perché ho avuto tanto dolore ma anche tanti incontri, tanto affetto, tanto amore, tanta solidarietà, tanta gente che ha pregato per me. Ho scoperto che la cosa più importante della vita sono gli altri. Ho fatto un percorso inverso a quello dei terroristi. Loro disumanizzavano le vittime, illudendosi di uccidere dei simboli. Io li ho umanizzati, arrivando a capire che c’erano vittime anche tra loro».