Con l’uscita di Luigi Di Maio dal Movimento Cinque Stelle ufficializzata ieri al termine di settimane di guerre fratricide, si consuma lo psicodramma grillino tra grida di giubilo da parte dei contiani, con tanto di bottiglie di spumante stappate alla Camera, certificando la fine inesorabile di quel percorso politico.
Populisti allo sbando, che suonano sul Titanic senza accorgersi che la nave sta affondando. Un Movimento che era nato per aprire il Parlamento come una scatoletta e c’è rimasto incastrato e ferito a morte.
Probabilmente non vi era alternativa a questa fine così misera. D’altra parte, non si può governare con i “vaffa”; per guidare un Paese serve una visione, occorre politica e lì politica non ce n’è mai stata. I grandi successi del 2018 sono maturati sull’onda della rabbia popolare abilmente cavalcata, ma hanno rivelato sin da subito che tutto era una gigantesca bolla che però non esisteva in natura. Prova ne sia che il punto più alto del Movimento ha coinciso con l’inizio della fine. Dal fallimento della prova di governo giallo-verde, all’emorragia di consensi con Di Maio che lascia il ruolo di capo politico, a Di Battista che si scopre – a sua insaputa – più turista che politico e infinte, alla morte di Gianroberto Casaleggio che ha costituito davvero il punto di non ritorno. La comparsa poi di Giuseppe Conte (“chi c… è?” Ebbe a dire Di Maio in un famoso SMS) ha poi mostrato plasticamente il nulla abissale di un partito che riusciva a vivere solo “alla giornata” contraddicendo se stesso ogni giorno generando sempre più malcontento. E anche al reazione di Conte all’uscita di Di Maio certifica ancora una volta questo “nulla” di cui l’avvocato del popolo è uno dei principali responabili. La tesi per cui alla fine “rimaniamo al Governo e non siamo né atlantisti né antieuropeisti” fa davvero pensare. Insomma, allora se il capitolo finale era già scritto sin da principio, perché avete montato tutta questa pantomina? La risposta, evidente anche se implicita, è sconfortante. Sostanzialmente dell’Ucraina non fregava nulla a nessuno né a Conte né al Movimento, ma è stata utilizzata come pretesto per dare una irresponsabile prova di forza interna da parte di una leadership di fatto inesistente. Tutto tattica e niente strategia, figuriamoci poi l’interesse per il Paese.
Irresponsabilità totale di Giuseppe Conte che probabilmente sognava di fare il Di Battista in pochette, senza averne nemmeno il carisma né tantomeno alcuna una speranza di successo. Ma tutto era funzionale a togliersi di mezzo l’ingrombante Ministro degli Esteri. Insomma, una faida interna fatta sulle spalle del Parlamento e del Governo il cui risulato è stato il de profundis del partito. Dilettanti allo sbaraglio che sono andati a schiantarsi tutti contro il muro della politica, quella vera, quella che fa Mario Draghi tanto per intenderci.
Ma se in Italia il populismo sembra avviarsi a un inesorabile declino, se varchiamo le Alpi e osserviamo quanto accaduto in Francia, all’esito delle elezioni per il Parlamento, scopriamo che le derive estremiste sono tutt’altro che morte. Anzi! Sebbene l’Assemblea Legislativa continuerà ad assicurare a Macron una maggioranza sostanzialmente omogenea, o quanto meno compatibile con la sua presidenza, le ali estreme si sono rafforzate e non poco. Dato da non sottovalutare, considerando che dietro queste forze estremiste, in Italia, in Francia e invero in tutta Europa c’è l’ombra lunga di Vladimir Putin che le ha sponsorizzate per anni, forse per decenni e che adesso spera di trar profitto dall’investimento.
Insomma, anche uscendo dall’angusto spazio politico dei confini nazionali, la situazione è tutt’altro che rosea.
Quindi ? che conclusioni trarre da tutto ciò?
Intanto che a rischio sono le stesse democrazia occidentali e le forze liberali che ne dovrebbero interpretare la storia e l’anelito verso il futuro. Non solo per il convitato di pietra (russo), ma anche e soprattutto perché il consenso dei populismi è ancora forte. Dietro alle loro risposte propagandistiche inevitabilmente irrealizzabili, stanno però delle domande vere, serie e reali che provengono dai cittadini e che meritano risposte. Arginare l’estremismo sapendo cogliere il malcontento che lo nutre dovrebbe essere compito delle forze liberali e democratiche e sottovalutare ciò sarebbe un errore fatale. In sostanza, Grillo e Salvini non potevano uscire dall’euro, Conte non poteva certo far cadere il Governo sulla risoluzione pro-Ucraina, Di Maio non poteva abolire la povertà, ma eccitare gli istinti che stanno alla base di questa propaganda ha indubbiamente pagato in termini di consenso e pensare di normalizzare queste forze con la parlamentarizzazione o con alleanze innaturali (il campo largo di Letta) è politicamente miope e alla lunga perdente. Se in Francia tutti i moderati reagiscono cercando di emarginare gli estremi, in Italia con la strategia della cooptazione e delle alleanze, i secondi hanno fagocitato i primi. Occorrerebbe farci una riflessione!
Come andiamo ripetendo ormai da mesi, non possiamo limitarci a dire che populismo è brutto e cattivo! Perché certo lo è ed è anche inefficace, ma si fa interprete di emozioni popolari – principalmente paura e rabbia – cui le forze democratiche e liberali debbono dare delle risposte serie, concrete, realistiche ma anche democraticamente radicali. Questa è la vera sfida del riformismo oggi. Essere popolare senza essere populista. E, in Italia, dove l’exploit della Meloni dimostra che la crisi del populismo si risolve in un mero travaso di voti, ancor più importante è che questo processo riformatore provenga da destra.