Un ponte tra l’Europa e le amministrazioni locali italiane

a cura del Centro Studi Buona Destra – Area tematica Governance


A mancare non sono le analisi sulle cause dei problemi che affliggono il nostro Paese da almeno 20 anni. E nemmeno i progetti o le proposte per avviarli a soluzione. Quella che è mancata è la volontà politica per affrontare riforme strutturali che seppur capaci di arrecare benefici già nel medio periodo, all’inizio richiedono alcuni sacrifici e, soprattutto,
la modifica di situazioni convenienti per alcuni gruppi, ma non per la comunità nazionale nel suo complesso.

Con la gestione delle ingenti risorse che saranno messe a disposizione dall’Unione europea, come trasferimento di risorse o prestiti agevolati, l’Italia ha di fronte un’occasione epocale. Ci sono infatti ambiti in cui la disponibilità di risorse aggiuntive potrebbe essere impiegata per ottenere risultati desiderabili anche se non si è in grado, nell’immediato, di cambiare le preferenze e le abitudini dei tanti attori dei processi decisionali. Di seguito proporremo un paio di esempi incentrati sul reticolo delle Amministrazioni locali. Una componente del sistema su cui si è abbattuta per prima l’ondata di piena dell’emergenza sanitaria.

Il territorio nazionale è ripartito in 7.903 Comuni. Quasi il 70% di questi è caratterizzato da piccole dimensioni, ossia una popolazione fino a 5 mila abitanti. Questi enti, inoltre, sono caratterizzati da una bassa autonomia finanziaria, perché dipendono più degli altri dai trasferimenti statali, anche se esercitano sui residenti una pressione finanziaria considerevole. Hanno un bilancio rigido, perché ingessato dalle spese fisse che è necessario comunque sostenere per tenere in piedi l’ente (spese per la sede, un minimo indispensabile di personale, ecc.). I cittadini che vi risiedono hanno gli stessi diritti di tutti gli altri connazionali, ma si scontrano con le limitate capacità operative degli enti. Problemi che sono amplificati dalle differenze nord-sud e dalla collocazione in pianura o in zone montane.

Le cose migliorerebbero se ci fossero meno enti, di maggiori dimensioni, con adeguati margini finanziari di manovra e con personale capace di guidare i vari progetti di sviluppo. Ma i processi di aggregazione procedono a rilento perché spesso la politica locale preferisce essere padrona di una landa desolata piuttosto che condividere la gestione di un progetto più articolato di sviluppo.

Ebbene, su questo aspetto si potrebbe intervenire incentivando, nei prossimi anni, le fusioni tra Comuni. Gli incentivi potrebbero assumere la forma di trasferimenti a favore degli enti risultanti dalla fusione e potrebbero essere finalizzati alla realizzazione di investimenti a sostegno del territorio e delle comunità locali. Privilegiare gli investimenti, a discapito della spesa corrente, risulterebbe coerente con l’esigenza di porre basi più solide per lo sviluppo delle economie locali. Favorirebbe un processo di maggiore responsabilizzazione delle classi dirigenti locali, chiamate a gestire in maniera equilibrata un bene su di un orizzonte pluriennale, anziché dilettarsi nell’inaugurazione delle più improbabili sagre di paese.

Un secondo esempio può essere tratto dall’analisi della demografia del personale pubblico locale. Secondo l’Associazione dei Comuni (ANCI), tra il 2007 e il 2019 il numero di dipendenti comunali è calato di circa 120 mila unità, grossomodo un quarto del totale. Si manifesta quindi l’esigenza di tornare ad alimentare gli organici se non si vuole determinare la paralisi di molti enti.

Tuttavia ci sono più modi di conseguire questo obiettivo. Si potrebbe battere la solita strada, autorizzando una spolverata di assunzioni per un gran numero di enti. Oppure si potrebbe incentivare una soluzione innovativa che spinga gli enti a mettere in comune quelle funzioni in cui maggiore è l’importanza del capitale umano e in cui è possibile e sensato coltivare specializzazioni. Si potrebbe cioè favorire la costituzione di centri di progettazione territoriale in cui siano presenti una pluralità di competenze. I centri opererebbero al servizio dei Comuni del rispettivo ambito territoriale, garantendo maggiore qualità dei servizi di progettazione, costi nel complesso contenuti, una maggiore efficienza dell’apparato pubblico nel suo complesso. Entità di questo tipo rappresenterebbero anche uno sbocco professionale interessante e un contesto lavorativo più dinamico, rispetto al tradizionale posto fisso scelto piuttosto per la stabilità del compenso e la possibilità di schivare responsabilità (elementi che creano al comparto pubblico difficoltà rilevanti a selezionare ed assumere professionalità tecniche adeguate).

Si tratta di esempi che mostrano come l’impiego saggio e oculato delle risorse potrà favorire il guadagno di competitività del sistema paese, la ripresa del nostro tessuto produttivo. Se invece prevarranno le solite titubanze, se ci si paralizzerà di fronte alle scelte da intraprendere, allora finiremo per spalmare le risorse su tanti progetti, magari con nomi altisonanti ma senza priorità sensate, finendo col disperderle come tanti rivoli sulla sabbia di una spiaggia agostana.