Sì, i fattori sociali, economici, culturali e ambientali incidono sulla salute del singolo e della comunità. Positivamente o negativamente. A spiegare le dinamiche dei cosiddetti “determinanti di salute” è Michael Marmot, uno dei massimi esperti mondiali. “La qualità e quantità di rapporti sociali hanno un impatto sullo stile di vita, sulla salute fisica e mentale e sul rischio di mortalità”, sostiene il professore, secondo cui gli esseri umani hanno due necessità di base: il libero arbitrio e il controllo sulla propria vita; le relazioni umane e il supporto degli altri.
“Ci sono ragioni evoluzionistiche molto precise – dice Marmot – senza relazioni sociali si è più vulnerabili. Andando indietro nel tempo, quando per esempio gli esseri umani cacciavano insieme, c’era bisogno che le persone si supportassero l’una con l’altra, per ragioni di protezione dai predatori, di condivisione delle risorse, di accesso a fonti di cibo più sostanziose. In questo senso, in quell’epoca avere relazioni sociali era letteralmente una questione di vita o di morte. Oggi le cose sono cambiate nella forma, ma non nella sostanza: la nostra necessità di relazioni sociali è ancora fortissima”. Tanto che, secondo le evidenze del professore, quella tra solitudine e peggior stato di salute è una correlazione generale, che vale per tutti, con alcune differenze. “Sappiamo bene, per esempio, che la mortalità è più alta nei soggetti di sesso maschile socialmente isolati che negli uomini sposati. Perché? La prima spiegazione è legata allo stile di vita: gli uomini soli, in media, consumano più alcool e mangiano peggio di quelli in una relazione. Nelle donne single o divorziate, invece, non si osserva lo stesso fenomeno: perché? Per capirlo abbiamo studiato le differenze tra i paesi dell’est Europa e quelli dell’Europa occidentale, in particolare prima e dopo la caduta del muro di Berlino, chiedendoci perché le nazioni comuniste europee avevano una salute peggiore e mortalità più alta delle altre e perché questo elemento era particolarmente evidente negli uomini single rispetto alle donne single. E quello che abbiamo osservato è che quando un uomo dell’Europa orientale non aveva un partner era davvero isolato, perché era la donna che tendeva a coltivare la “rete informale” di contatti umani: se bisognava far sistemare il tetto, o comprare un frigorifero nuovo, o riparare la macchina, era la donna che se ne occupava. Quindi, se un uomo in quell’ambiente perdeva la sua partner femminile, con lei perdeva anche ogni connessione con il mondo e con gli altri esseri umani. E si ammalava di più, e moriva prima degli altri. Viceversa, se una donna perdeva il suo partner maschile, aveva semplicemente un problema in meno da risolvere. Continuava a doversi occupare della famiglia, della casa, dei figli, e non aveva un altro essere umano da accudire. Probabilmente, quindi, è vero che le donne tendono ad avere relazioni sociali più forti anche all’esterno del matrimonio”.
E, oltre al genere, non ci sono dubbi per Marmot che la povertà sia legata alla solitudine.
“Il fattore determinante è il reddito. Qualche anno fa, nell’English Longitudinal Study of Aging, abbiamo osservato che tutti gli indicatori relativi alla solitudine erano correlati alla ricchezza: in generale, più si è poveri e più si è soli. Quando si è poveri i problemi sono anzitutto pratici: se non si hanno i soldi per pagare il riscaldamento o l’affitto è difficile che si pensi a invitare a casa gli amici. Se si vive in un paese dove l’ospitalità è culturalmente importante, e non si hanno le risorse per essere ospitali, ci si sente inadatti, ci si vergogna, e si tende a isolarsi sempre di più. Poi c’è la questione psicologica: vivere in povertà consuma tempo ed energie mentali. Dover pensare a dove racimolare il denaro per la sopravvivenza toglie energie, tempo e desiderio di stare con gli altri. E, ancora, porta all’isolamento”.
La solitudine va combattuta su due fronti: il primo è individuale e si misura chiedendo alle persone, per esempio, quanto spesso incontrano i propri parenti, o i propri amici, o i propri colleghi. Ma questo indicatore va inserito nel contesto sociale: in Italia, per esempio, si tende a incontrare amici e conoscenti molto più frequentemente che nel Regno Unito. E quindi la frequenza degli incontri va valutata rispetto alla media dell’ambiente in cui si vive. C’è poi un secondo livello, quello di comunità, legato al cosiddetto “capitale sociale”, ossia alla “qualità” delle proprie relazioni. Che è effettivamente più difficile da misurare: per farlo, nei nostri studi poniamo domande come “ti fidi di chi vive nel tuo quartiere?”, oppure “se tuo figlio fosse in pericolo pensi che i tuoi vicini di casa lo aiuterebbero?”. Le risposte ci aiutano a valutare la qualità delle relazioni sociali a livello di comunità, il cosiddetto “effetto spettatore”. In questo senso, le evidenze sono abbastanza incoraggianti: come ha fatto notare lo storico olandese Rutger Bregman nel suo libro Una nuova storia (non cinica) dell’umanità (2019), la ricerca suggerisce che gli esseri umani tendono a essere più “buoni” di quanto si possa pensare, nel senso che in media ci sono più esempi di aiuto e supporto, anche nei confronti degli estranei, che di indifferenza. Vivere in una comunità dove si possono saldare connessioni sociali anche con gli estranei, dove ci si aiuta vicendevolmente, può cambiare davvero le cose”.
Per il professor Marmot, l’unico modo per combattere la solitudine è creare le condizioni giuste.
“Non si può dire semplicemente ‘amatevi l’un l’altro’. Bisogna creare le condizioni perché questo accada. A livello di comunità bisogna agire non solo riducendo la povertà, ma anche attraverso interventi sociali e urbanistici. Gli amministratori dovrebbero chiedersi, per esempio, se nelle città che governano ci sono abbastanza luoghi dove le persone possano incontrarsi e stare insieme, e se questi luoghi sono abbastanza sicuri. Se si ha paura di uscire, per esempio, perché si vive in un quartiere molto violento o degradato – e questo, di nuovo, accade alle persone socialmente ed economicamente più svantaggiate – si ricadrà più facilmente nell’isolamento sociale. Lo stesso vale per il welfare e per i servizi: buoni asili, scuole efficienti, attività pre e doposcuola possono fare la differenza. Per quanto riguarda i più giovani, c’è poi la questione, ancora più ampia, del futuro. La disoccupazione e l’analfabetismo giovanili sono altamente correlati all’isolamento sociale. Parte dell’essere isolato, oltre a non avere fisicamente qualcuno vicino, sta nel percepire una mancanza di possibilità e fiducia nel proprio futuro. Non sentirsi parte della società, non avere speranze. Date alle persone un’aspettativa per il futuro, un coinvolgimento nella società, e si ridurrà anche la solitudine. L’isolamento ha due facce, una individuale e una sociale, che vanno a braccetto. Per risolvere il problema bisogna affrontarle entrambe”.