È questa mimosa dell’8 marzo tinta di sangue, bagnata di lacrime. Si è colorata via via di tutte quelle immagini dolorose che il mondo del web ci propina un secondo sì e l’altro pure. Soprattutto oggi che la guerra è ad un passo da casa. Non ci dà respiro Internet, quasi volesse chiamarci a raccolta tutti, affinché nessuno possa osare frasi come: «Io non lo sapevo».
Così abbiamo ben stampate nella mente frame di video di donne profughe ucraine costrette a lasciare le proprie abitazioni e scappare spaventate dalle guerre con i figli in braccio; di donne che partoriscono nel ventre della terra (il solo luogo ora sicuro da quando il cielo non lo è più), come Kateryna Suharokova, che ha dato alla luce la sua bambina nel bunker dell’ospedale di Mariupol.
E ancora donne che si aiutano e rimboccano le maniche, come rivela una fila di passeggini con tanto di copertine e necessaire per neonati su un binario di una stazione dei treni in Polonia. Un modo per rendere meno difficile il lungo viaggio verso la salvezza.
La tragica forza delle donne ucraine. Questo 8 marzo è tutto per loro
Ecco, in vista dell’8 marzo il pensiero va a tutte queste incredibili donne, profughe e rifugiate, spinte a partire da sole o con i propri figli. Eroine silenziose, piene di coraggio, da sempre vittime più esposte dei conflitti voluti dai potenti avidi di ricchezze. Oggi l’Ucraina è sulle nostre prime pagine, ma le donne, da che è nato il mondo, han sgobbato nelle retrovie, ora nelle infermerie da campo ora nei lazzaretti, senza ricevere medaglie. Mai lamentandosi, celando la fatica.
In Africa, in Medio Oriente, in Afghanistan e in tante aree dimenticate del pianeta, le donne si sono trovate strappate alla loro quotidianità, si son viste private dei propri affetti. Chi più chi meno colpite nella dignità. Perché la storia purtroppo ce lo insegna: quando scoppiano le guerre le donne sono quelle che pagano un prezzo altissimo, spesso stuprate per umiliare il nemico. Le loro urla, i loro gemiti di dolore sono i nostri. Non è retorica vuota, credetemi.
Non ci stiamo voltando dall’altra parte, lo dimostrano le tante mani tese ad aiutare i profughi di ogni età che stanno giungendo da Kiev e dintorni, magari per allungare un pacco di vestiti o medicinali; anche solo per dare una carezza accompagnata da una parola di conforto; o per regalare un sorriso ad un bambino con un giocattolo.
La «bella cosa» che sotto ai raid, nel gelo dei bunker, sembrava perduta per sempre. Così come l’infanzia, l’innocenza. Prendiamo la città polacca di Przemysl, diventata un punto di transito per gli ucraini in fuga. Da quando è iniziata l’invasione russa, l’Associazione culturale «La Casa del popolo ucraino» ha iniziato ad accogliere rifugiati all’interno dei suoi spazi.
Sempre dalla parte opposta della guerra
È guardando quelle immagini, solo quelle foto, che capiamo forse la cosa più semplice di tutte: le donne che stringono tra le braccia i propri bambini, che portano manoscritti fuori da biblioteche che rischiano di essere devastate, che coprono le statue per timore delle bombe, che protestano per i diritti di altre donne senza lasciarsi intimorire, che si prendono cura dei più fragili, viaggiano dalla parte opposta della guerra. In direzione contraria a tutto ciò che è morte. Le donne sono (e danno) la vita. Auguri.