Ho sempre pensato che avrei preferito nascere in un’altra epoca. Finalmente avverto il senso di impegno e coraggio di un risveglio
“Siamo in guerra”. “È un bollettino di guerra”. “Come in guerra, si decide chi curare e chi lasciar morire”. Sono le frasi che caratterizzano questi nostri strani giorni, che ascoltiamo e riascoltiamo, leggiamo e rileggiamo; giornali, televisioni, social. Siamo in guerra. E chi di noi un periodo di guerra militare non l’hai mai vissuto, chi in una guerra fatta con le bombe non c’è mai stato — e siamo in tanti — anche non potendo permettersi di paragonare ansie, paure e stati d’animo, credo che in guerra si senta. Ansie, paure e stati d’animo sono quelli di un popolo in guerra.
Ho sempre sostenuto che avrei preferito nascere in un’altra epoca. Forse, un po’, avrei anche dovuto nascere in un’altra epoca. Perché a volte mi sento fuori moda, anacronistica, superata. Per quel senso di appartenenza spiccato, quell’amor di Patria che me lo sento sulla pelle e nell’anima in forma di brividi e di magone allo stomaco allo sventolare del Tricolore, alle note dell’Inno di Mameli, alla notizia di un italiano che ce la fa, ancora, a rappresentare un’eccellenza davanti agli occhi del mondo intero. Per quella nostalgia per un’Italia che in fondo non ho conosciuto che sui libri di Storia, tutta impegno e passione civile, tutta responsabilità e audacia. Avrei voluto nascere all’epoca del Risorgimento o della Seconda guerra mondiale per combattere e costruirla o ricostruirla la nostra Patria. Avrei voluto avere 20 o 30 anni negli anni 70, per poterla ridisegnare ed emancipare la nostra Nazione. Avrei voluto venire al mondo in un’epoca che mi permettesse di avvertire la sensazione di vivere per un obiettivo più grande di me, per un fine più nobile di me, per uno scopo più alto di me. In un’epoca che mi consentisse di correre il rischio di finire anche impiccata, fucilata per la salvezza del mio Tricolore e della mia terra. Un’epoca di risveglio di coscienze e dignità di patria, di orgoglio e coraggio.
A tratti, quando sono arrabbiata con l’Italia e gli italiani, che troppo poco spesso ricordano di essere un popolo da trattare con rispetto, sono arrivata a dichiarare che avrei voluto nascere negli Stati Uniti per vivere da americana l’11 settembre, l’unico evento della nostra Storia contemporanea — che ricordi — che ha risvegliato le coscienze, che ha consentito alla mia generazione di percepire la sensazione di vivere per un obiettivo più grande, per un fine più nobile, per uno scopo più alto. Tutti insieme. Ma oltre Oceano. E invece sono nata nella prima metà degli anni 80, e 30 e più anni li ho ora. Nell’epoca della pandemia da Coronavirus. La mia epoca di guerra, la sto vivendo ora. Chiusa nelle quattro mura della mia casa eppur al fronte. Senza combattere con le armi, eppure silenziosamente e pacificamente agguerrita contro un nemico che voglio uccidere. Perché la sua morte significa la mia vita. E oggi avrei potuto avere 10-20-30-40-50-60-70-80-90 anni, al fronte ci sarei stata comunque, in prima linea mi ci sarei sentita comunque. Perché questa è una guerra che combattiamo tutti, ciascuno a modo suo e per quel che può. Oggi siamo tutti in prima linea. Lo sono i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario, ai quali è chiesto un impegno indefesso e costante. Epico e valoroso. Sono loro gli eroi della nostra guerra. Lo sono gli scienziati, ai quali è chiesto di lavorare forsennatamente per capire le caratteristiche e, soprattutto, le evoluzioni di questo virus sconosciuto e giungere nel più breve tempo possibile a tirar fuori un vaccino che possa mettere fine a questo strazio.
Lo sono i politici, ai quali è chiesto di gestire una fase di crisi che non ha precedenti nella storia democratica. Hanno sbagliato, esitato, sbaglieranno ed esiteranno ancora, perché imporre quarantene e restrizioni della libertà ad un popolo come quello italiano, parte integrante del mondo occidentale, che per quelle libertà ha combattuto a costo della vita non è decisione facile da prendere. E per quanto si possa essere critici — e lo sono stata, oh se lo sono stata anche io — questo è il momento di obbedire e ascoltare, di collaborare ed eseguire. Verrà il tempo per valutare e presentare conti. Per provare a migliorare una classe dirigente politica che in tante occasioni si è mostrata non all’altezza delle aspettative, che ancora oggi, nel bel mezzo di una catastrofe mondiale, in larga parte della sua schiera, continua a manifestare inconsistenza e opportunismo, a pensare al suo becero tornaconto elettorale, rischiando di distruggere quel senso di responsabilità e di comunità tanto faticosamente costruito e enormemente necessario. Senso di responsabilità e di comunità dal quale, ipocritamente, dichiara di essere mossa.
Ma lo siamo anche noi. Anche a noi è chiesto di combattere e resistere. Certo comodamente seduti sui divani di casa. Eppure senza l ’impegno di ciascuno di noi, lo sforzo eroico di chi cura, studia e gestisce non ha ragione di essere. Senza il mio giusto e costante operato, l’operato di chi mi sta accanto diventa vano. È una strana guerra quella che ci troviamo a combattere, di quelle che innalzano lo spirito civico di una comunità oltre ogni limite umano immaginato, che esaltano il senso di responsabilità come poche volte credo sia accaduto nella storia. Perché è una guerra che nessun manipolo di soldati, nessuna élite di illuminati può vincere senza la partecipazione di tutti. Siamo in guerra, se per guerra intendiamo un evento storico che mette a soqquadro l’intera esistenza del genere umano, che stravolge qualsiasi abitudine, che chiama tutti ad adoperarsi e combattere per il fine più alto che possa esistere: la sopravvivenza. Ed è una guerra che ha modificato tutti i nostri parametri, non solo le nostre abitudini. Quelle ritorneranno, presumibilmente, uguali a prima, negli automatismi che le contraddistinguono. Le nostre priorità, mi auguro e credo, no.
Mi auguro e credo che questa guerra ci insegnerà l’importanza di una chiacchierata con un amico, guardandolo negli occhi e non nascosto dentro sterili messaggini inviati dallo schermo di un telefonino. Di una cena o un aperitivo per il piacere autentico di condividere un momento con chi ci aggrada e non per postare una storia su Instagram. Di una dimostrazione di affetto, autentica reale concreta tangibile quando necessaria, quando un nostro caro ne ha profondamente bisogno. Di un attimo di pausa, da dedicare a dettagli e piccolezze che non vediamo o fingiamo di non vedere intenti come siamo a correre e essere perfetti. Costretti a stare in casa e a non mostrarci immersi in una quotidianità costruita ah hoc per essere mostrata, ci ricopriamo più consapevoli della nostra quotidianità vera, concreta, reale. Di ciò che abbiamo e non di ciò che artificiosamente mostriamo di possedere. Ci riscopriamo più consapevoli di ciò che siamo. E forse non ci dispiace così tanto.
Nella solitudine delle nostre case, siamo felici di ritrovare o siamo costretti a ritrovare il giusto ordine delle cose. A ristabilire priorità e attribuire postazioni nella classifica della nostra vita. L’assurdità della situazione che viviamo ci restituisce un’immagine delle nostre vite che non conoscevamo. Ci permette di sperimentare una ricchezza interiore che non sospettavamo più di avere. Riscopriamo piaceri semplici che avevamo accantonato a favore di una frenesia spesso superficiale e ancor più spesso autoimposta senza nemmeno sapere perché. E mentre riscopriamo il piacere di trascorrere ore, e dico ore, a giocare con una bambina che conosce la gioia di organizzare il suo angolo di asilo sul balcone di casa inondato dal sole; l’appagamento di dedicare tempo, energie e interesse sconsiderato per la difesa della vita di quei genitori così fragili di fronte al virus che ci attacca; la gioia di sedersi ogni santo giorno, tutti insieme, intorno ad una tavola per sentirsi davvero famiglia, il bollettino delle 18 ci ricorda quanto vicino stiamo andando a perdere tutto ciò che faticosamente abbiamo costruito e ciò che solo ora improvvisamente abbiamo riscoperto. Muoiono persone, un bollettino di guerra costantemente aggiornato in diretta televisiva. Che ci sorprende impauriti, disorientati, terrorizzati, doloranti. Spesso impotenti. Eppur combattiamo.
Una guerra difficile, ancor più difficile per una generazione come la nostra non abituata ai sacrifici, raramente costretta a lottare per ottenere qualcosa. Una guerra infima contro un nemico invisibile che può essere ovunque. Che ci costringe a stare lontani, a sospettare, ma a resistere grazie alla forza che ci infonde il sapere che ciascuno di noi sta compiendo lo stesso gesto. La pandemia da Coronavirus ci ha riscoperti fragili, umani. Ma ci ha riconsegnato un coraggio che forse non sospettavamo nemmeno più di possedere. Un coraggio figlio della paura, certo. Un coraggio nato dalla necessità, certo. Ma il coraggio è spesso figlio della paura. Nasce spesso dalla necessità. Momenti di sbandamento ne abbiamo avuti. Di strafottenza, di vigliaccheria, di ignoranza. Ma ora leggo i giornali che ci riportano le cronache di un’Italia diversa e composta.
Ascolto le parole dei miei amici che si fanno forza e compagnia l’un l’altro, seppur a distanza. Sento la sofferenza determinata di mia madre che riesce a resistere chiusa in casa, nonostante l’insofferenza. Guardo le immagini delle strade delle nostre splendide città ormai vuote sebbene illuminate da un sole alto e invitante. Sento l’Inno d’Italia echeggiare dalle finestre spalancate e vedo il Tricolore sventolare ai balconi delle case. E quel senso di comunità, quello spirito di responsabilità, finalmente li sento. Quell’Italia tutta impegno e passione civile, tutta responsabilità e audacia finalmente la vedo. Quell’epoca di risveglio di coscienze e dignità di patria, di orgoglio e coraggio finalmente la avverto come reale e presente. Quella sensazione di vivere per un obiettivo più grande di me, per un fine più nobile di me, per uno scopo più alto di me finalmente la avverto. È una guerra che ci cambierà e logorerà, ma che lentamente e compostamente stiamo combattendo. E, sono certa, ce la faremo. Andrà tutto bene. Oggi, se ci penso, sarei voluta nascere esattamente nel 1983 in Italia.