Despondere spem est munus nostrum. È il motto della polizia penitenziaria. Motto che ha sostituito negli anni il vigilando redimere dell’allora corpo degli agenti di custodia, dagli anni ’90 divenuto appunto polizia.
Evidente, soprattutto nell’attuale, l’ispirazione a sentimenti di vicinanza, valorizzazione della dignità dell’uomo, che non è e non deve essere solo il suo reato, nella speranza di un suo recupero, interiore oltre che sociale.
Verrebbe allora da chiedersi cosa sia mutato, negli anni, nelle considerazioni e nelle politiche penitenziarie se la maggior preoccupazione, che muove oggi quasi tutte le rappresentanze dei poliziotti penitenziari e assecondata anche dai vertici dell’amministrazione penitenziaria, che è bene ricordare rappresenta un mondo variegato, di tante professionalità, spesso afone, sia quella della severa repressione dei reati all’interno delle carceri.
Preoccupazione sposata in pieno oggi dal governo che ha emanato un nuovo decreto sicurezza che introduce nuovi reati, come quello relativo alle rivolte (si spera almeno che saranno individuati profili oggettivi e puntuali che definiscano la fattispecie, senza lasciarla a parole e valutazioni inserite in relazioni e verbali), aggravamento di pene, più reati ostativi che limitano l’accesso ai benefici extramurari.
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Al di là dell’evidente scostamento dal motto che dovrebbe illuminare il cammino della polizia penitenziaria, che pare non saper apprezzare la ricchezza e la completezza del suo servizio, rivolto alla “persona” che va sostenuta e accompagnata in un percorso di recupero, viene da chiedersi: alla fine, cui prodest.
I nuovi reati intaseranno ulteriormente la giustizia, sempre che non decadano prima giacchè riferibili a persone che esprimono un proprio disagio, alcune con disturbi mentali, stipate in ambienti non proprio sani, porteranno a nuovi ingressi (cui si sommeranno le mancate uscite a causa dei reati ostativi) e quindi ad ennesime richieste di aumento di personale di polizia, che non avranno mai fine. Mai.
Speriamo almeno che non si debba assistere a un tentativo di riforma della norma costituzionale che impone alla pena di tendere alla rieducazione del condannato. Tanto, nei fatti, è già ampiamente tradita.