La premessa per queste sue righe è importante: la ministra Roccella non voleva ingenerare questa polemica sull’accostamento del giorno al caso Tortora. Ne è certa, come è certa della storia radicale della ministra e del discorso sul garantismo che voleva fare, Gaia Tortora, figlia del conduttore televisivo, giornalista e politico italiano. Ma le storie sono diverse. Nonostante ciò il caso Tortora qualcosa avrebbe dovuto insegnare anche alla politica, e invece in periodi come questo sembra che nulla sia cambiato. Ecco uno stralcio del discorso, presentato su “La Stampa” dalla figlia di Enzo Tortora, con cui suo padre si dimise dal Parlamento europeo il 10 dicembre del 1985, per andare incontro agli arresti domiciliari da uomo onesto e innocente, vittima di una macelleria giudiziaria senza precedenti e con la complicità di certa informazione.
“Oggi, 10 dicembre, dunque, io scelgo la via del carcere – e quali carceri, in Italia, sapeste colleghi – mentre avrei potuto continuare a coltivare l’onore di essere e operare per altri anni con voi, in attesa che giustizia fosse fatta di un’accusa che l’intero popolo italiano sente essere mostruosa. Ma colpevole di essere innocente, … mi assumo la responsabilità di disubbidire, carissimi colleghi, a quella delibera che, so bene, dovrebbe essere seguita anche da me, per doverosa e ragionevole deferenza alla saggezza e alla volontà del Parlamento. Ma disubbidisco per fedeltà. Ho deciso di dare corpo non già a un sacrificio, ma alla esigenza più urgente, più piena, più rigorosa di fare, di dire, di creare giustizia contro ogni violenza, contro la violenza della menzogna e della ingiustizia. Voglio essere libero, quando la giustizia stessa del mio Paese sarà liberata, libera anch’essa, davvero indipendente e sovrana alla sola soggezione della legge. Nel salutarvi, signor presidente, mi preme però essere anche testimone di giustizia. Già qui e oggi, voglio dirvi, assicurarvi, che i giudici del mio Paese, nella loro grande maggioranza, sono giudici di giustizia e non giudici di potere e di violenza. I giudici del mio paese, lo so, sono essi per primi offesi e oppressi da chi pretende troppo spesso di parlare in loro nome e ferisce ogni giorno la loro immagine e la loro vita difficile anche per responsabilità della classe politica al potere. Anche per loro e con loro dobbiamo percorrere questo duro e stretto sentiero e a loro va la mia e la nostra dichiarazione di rispetto e di fiducia…”.
Tortora dunque si dimise, un gesto piuttosto raro nel contesto nazionale. Gaia, tuttavia, evita di esprimere un giudizio sulla decisione presa dal padre, ritenendo che ogni individuo debba agire in base alle proprie convinzioni. Tuttavia, sostiene che talvolta prendere una direzione diversa può essere utile. In effetti, sia le dimissioni che le scuse non dovrebbero essere considerate segni di debolezza, bensì segni di rispetto.
Sarebbe auspicabile che i politici comprendessero questa prospettiva e che l’opinione pubblica imparasse a non considerare automaticamente tali dimissioni come ammissioni di colpa. Questa è una questione culturale che richiede ancora molto lavoro da parte di tutti. Attualmente, sembra che il Paese sia immerso in uno stato di continua conflittualità, con accuse di complotti, e i media spesso utilizzati come strumenti di propaganda da parte di varie fazioni.
Gaia invece sostiene che la giustizia meriterebbe di più. Infatti questa è un bene comune e dovrebbe essere restituita a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro appartenenze politiche. Per questo dunque chiede che, almeno in questa occasione, si ponga fine a tali dinamiche consolidate e di uscire dagli schemi abituali. Non è sufficiente invocare il nome del padre per convincere gli italiani dell’esistenza di distorsioni all’interno del sistema giudiziario.