Salvini e Conte? Non possono tradire il “rapporto speciale” con Putin

L’asse gialloverde tra Salvini e Conte non guarda al futuro, ma al passato. La freddezza e la linea dura contro il Governo Drgahi e l’annunciata contrarietà all’aumento delle risorse destinate agli armamenti, che accomunano le linea politica di Matteo Salvini e Giuseppe Conte, non sono frutto di un possibile ritrovato interesse reciproco in vista di un futuro ritorno di fiamma in chiave elettorale. No. Rappresentano, semmai, la volontà di non creare una frattura definitiva, e insanabile, con la Mosca di Putin, in ossequio agli anni (208/2019) del governo gialloverde in cui le relazioni col Cremlino furono ritenute “rapporti speciali” dall’avvocato del popolo all’epoca premier.

E’ per non tradire quel patto di ferro con Putin, per non venir meno ad un accordo con lo zar che oggi Salvini e Conte si pongono in contrasto con la posizione – più che legittima, vista la situazione – atlantista, europeista e quindi filo ucraina dell’Italia di Draghi. Le bollette, le necessità delle famiglie, l’approvvigionamento energetico, sono solo tutte scuse per non sconfessare, come ricorda oggi Francesco Verderami sul Corriere della Sera, l’epoca “dei rapporti speciali” e del “partenariato” con Mosca.

Il problema di Lega e M5S, in realtà, è più complesso. Salvini e Conte devono infatti fare i conti con le spinte filo russe interne ai loro partiti. Componenti di un certo peso, a giudicare dalle defezioni gialloverdi in Parlamento durante l’incontro parlamentare a Montecitorio con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, martedì scorso. Pillon, Borghi, Comencini sul fronte salviniano, Segneri, Grimaldi e Petrocelli (emblematica la sua richiesta al Movimento di ritirare ministro e sottosegretari dal Governo Draghi, ritenuto alla guida di un Paese “belligerante”) su quello pentastellato: sono solo alcuni dei nomi dei parlamentari che appoggiano la deriva espansionistica e illiberale di Putin. Parlamentari che hanno appoggiato l’invettiva giunta al ministro degli Esteri stellino Luigi Di Maio da parte dell’omologo russo Lavrov nei primi giorni del conflitto. Parole dure (“la diplomazia serve a risolvere i conflitti, non per viaggi a vuoto in giro per paesi a degustare piatti esotici”), a cui lo stesso Di Maio, che aveva in precedenza paragonato Putin a un animale, ha reagito cospargendosi il capo di cenere e facendo ammenda pubblicamente, sostenendo di “non voler offendere nessuno”.

Dietro questo squallido quadretto si nascondono, ma neanche tanto, le pressioni russe sugli esponenti dei partiti amici, Lega e M5S, per mitigare la condanna a Mosca per l’aggressione all’Ucraina. E gli sventurati risposero con un atteggiamento contrario alla linea ufficiale, in nome dei vecchi tempi quando Conte e Salvini si lasciavano amabilmente fotografare con lo zar invasore, a cui ancora oggi si prostrano come sudditi. Il voto contrario dei cinque stelle all’aumento dei fondi per gli armamenti non può che essere interpretato come un chiaro segnale di sudditanza a Putin e alla Russia.