Il Movimento Cinque Stelle e con esso la sinistra italiana si arrogano il diritto di far passare per loro propria la battaglia sul salario minimo che sta tenendo banco nel dibattito politico attuale. Di sicuro c’è da gioire perché finalmente ci si occupa di un problema serio e che effettivamente può cambiare le sorti di milioni di famiglie e di lavoratori dipendenti. E, indubbiamente, è un segno di civiltà stabilire una sorta di linea Maginot al di sotto della quale non si può parlare più di lavoro ma di vera e propria semi schiavitù. Da questo punto di vista un minimo di regolamentazione certo aiuta.
Ma non si può condividere l’approccio ideologico e novecentesco della sinistra che vede in questa misura la panacea di tutti i mali del mondo del lavoro. E di sicuro fa sorridere che ne gioisca l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte che in tre anni a Palazzo Chigi, e con ben due maggioranze di segno radicalmente opposto fra loro, niente ha fatto in materia. Ma si sa, in politica si tende a smarrire la memoria molto presto e a riciclarsi altrettanto velocemente nel calderone della populistica vulgata che sposa ogni battaglia acchiappa consensi. Poi, dopo l’ubriacatura da like sui social, si dovrebbe intravedere la realtà dei fatti, ma su questo la attuale sinistra, ancora prigioniera di ideologie oramai superato dalla storia, cade rovinosamente e dimostra tutta la sua inadeguatezza.
L’impatto con la realtà è fatale per chi vive di soli slogan: non c’è eccezione a questa regola. La verità è molto diversa da quella prospettata dai teorici della decrescita felice (per chi?). Se non c’è produzione di ricchezza non c’è possibilità di redistribuzione. Se non c’è crescita non c’è eguaglianza né sviluppo. Se le imprese non sono messe in grado di dare lavoro, la misura del salario minimo sarà un bellissimo feticcio privo di sostanziale contenuto pratico. I lavoratori saranno illusi ma non per questo più ricchi, e ben si sa, con le illusioni non si pagano le bollette e non si arriva a fine mese.
Forse,fra i più sensibili a questi temi spicca Stefano Fasssina che, correttamente, parlando del salario minimo alla luce della futura direttiva europea, parla di passo avanti in un cammino ancora lungo. Al netto della pregiudiziale ideologica di Fassina circa la natura dei quel “cammino lungo” da cui dissentiamo radicalmente, non possiamo che riconoscergli l’onore delle armi. Egli infatti, a differenza di Conte, Landini e altri, si è astenuto da proclami roboanti o fittizie grida di entusiasmo e ha mantenuto un basso profilo provando a entrare nel merito del problema. Ma è mosca bianca in una sinistra priva di identità che deve attaccarsi necessariamente a queste battaglie di principio per non riconoscere di aver perso ormai se stessa e ogni “connessione ideale” (per usare un termine ad essa caro) con il proprio elettorato di riferimento. Fatti loro, si potrebbe dire da destra! E invece no. Perché sulle tematiche del lavoro e dell’economia ne va dell’intero Paese e non si può essere veramente patriottici se non si hanno a cuore le sorti di tutti i cittadini, figli di un’unica Patria e interessati all’avvenire della stessa, nel bene o nel male.
Detto questo, non si può che concludere che la battaglia sul salario minimo, per quanto importante, riflette sempre una forma di sindacalismo politico dal quale occorre distaccarci, pena l’affondare nel contingente e rinunciare a una visione più ampia. Ebbene, se, al contrario, si accetta la sfida di guardare un oltre il proprio naso non si potrà che riconoscere che se non vi è crescita armonica non c’è futuro per il paese. Se chi produce ricchezza e dà occupazione non è messo in condizione di poterlo fare, il resto è sostanzialmente fuffa, buona per la propaganda, pessima per il buon governo.
Una destra di governo, seria e non ideologica, popolare ma non populista non può sottrarsi a questa sfida, che è quella di sostenere il comparto produttivo con una rivisitazione di sistema che non può limitarsi al salario minimo ma che deve prendere in esame il complesso dei rapporti economici e sociali del paese. Ebbene, ciò si traduce nella necessità di studiare misure di compensazione a favore delle imprese che vadano nella direzione di detassare, e incentivare le assunzioni e la produttività, lasciando un margine di saldo positivo che possa consentire di assorbire l’innalzamento dei salari.
Un governo che abbia realmente a cuore l’interesse collettivo non può sottovalutare la dinamica in esame e i rapporti tra salari lordi e netti rivedendo e contenendo il costo del lavoro; pena il rischio di un conflitto tra (sempre più) poveri e pesanti conseguenze sulla tenuta sociale di una comunità nazionale già fortemente stressata da pandemia e guerra. Insomma, come dice Enzo Raisi, ex parlamentare di AN e valente amministratore pubblico del Comune della rossa Bologna, “pensare a un salario minimo senza prima aver agito sul costo del lavoro che è uno dei più alti in Europa nella sua componente non salariale, è un suicidio. Dopo di che, senza competitività, il prodotto italiano lo vendiamo a Conte e ai grillini, e un po’ anche a Letta e Landini. Stressare le aziende avrà il solo effetto di generare un diffuso fuggi fuggi”.
Insomma, auspichiamo vivamente che la classe dirigente di questo paese, per quanto inadeguata, faccia una seria riflessione prima di cantar troppo facili vittorie, magari dai balconi annunciando per la seconda volta l’abolizione della povertà.