In coerenza con la nostra adesione all’ALDE, che non è un semplice cambio di casacca ma è un insieme di valori che certificano il modo con cui ci posizioniamo in Europa e all’interno di Renew Europe, dobbiamo cominciare a concepire Azione come una grande sfida liberaldemocratica.
Una sfida liberaldemocratica per costruire in Italia il partito che non esiste: il nuovo partito del liberalismo italiano.
Una sfida che assume oggi ancora maggiore valore e urgenza di fronte allo scontro di civiltà in atto tra liberalismo e illiberalismo.
Una sfida che deve vedere in Azione il nucleo promotore di un processo costituente che si rivolge alla società aperta per far sì che possa concorrere alla definizione di una nuova organizzazione, nuova leadership e nuovo posizionamento, che non si riduca all’ennesima operazione centrista tra una destra e una sinistra, ma che abbia l’ambizione di rappresentare l’alternativa al populismo sovranista, all’interno del quale si consuma la vecchia spaccatura tra destra e sinistra.
L’idea che la fase costituente si basi su una classe dirigente predefinita non ci deve appartenere più, e riconosciamo che il vero fallimento del Terzo Polo sta tutto nel non essere riusciti a superare questa logica partitocratica.
Il primo passaggio del processo costituente è, e non può essere diversamente, quello di definire un nuovo patto fondativo della società italiana attraverso la riscrittura dell’intera Costituzione.
Come nel ’46, in quel contesto geo-politico, la Costituzione ha definito i cardini su cui si andava consolidando il compromesso cattocomunista. Oggi dobbiamo pensare alla legge fondamentale del Paese che definisca le nuove fondamenta della nostra società.
Una società fondata sul merito, sulle opportunità, su un nuovo rapporto tra bisogni e desideri, tra diritti e doveri.
Una riforma costituzionale che modifichi solo la seconda parte della Costituzione non ci basta più, così come riconosciamo che la costituzione più bella del mondo non è più sufficiente a garantire pace, benessere, progresso e aria condizionata.
Come liberali, non possiamo non riconoscere che i cardini del populismo sovranismo: statalismo, burocrazia, assistenzialismo, giustizialismo, trovano le loro radici in quel compromesso cattocomunista, che ha portato il nostro paese dall’essere liberale a essere criptosocialista, sancito dall’attuale Costituzione, e che oggi ne paghiamo le conseguenze principalmente in termini di competitività nel sistema globale.
Per questo riteniamo che vada combattuta con ogni mezzo la cultura assistenzialista che produce una classe sociale che vive di spesa pubblica e che fa di tutto per mantenere questa condizione. L’unico assistenzialismo accettabile è una rete di sicurezza per coloro che, colti da sciagura, perdono il proprio lavoro o sono impossibilitati a inserirsi sul mercato. Non è accettabile un assistenzialismo che premia la pigrizia e uccide ogni volontà di mettersi in gioco. Non si cresce con l’assistenzialismo; si cresce con il rischio, gli investimenti, la voglia di fare e lo spirito d’iniziativa.
Per questo, come liberali, siamo convinti che l’eliminazione del profitto rappresenti la fine della civiltà stessa, poiché svolge un ruolo fondamentale, nel senso che è letteralmente il fondamento di tutto ciò che di buono ci circonda, svolgendo le due funzioni essenziali in un’economia di mercato: quella allocativa e quella dinamica.
Per un liberale, la disuguaglianza non è un problema in sé, ma una conseguenza naturale della libertà individuale, della diversità delle persone. La povertà, invece, impedisce, toglie la libertà di soddisfare i propri bisogni essenziali. Ognuno ha il diritto di perseguire i propri interessi, talenti e sogni, senza interferenze da parte dello Stato o di altri. Questo porta a una società dinamica, innovativa e prospera, dove chiunque può migliorare la propria condizione con il proprio impegno e merito.
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Per un liberale, la povertà, invece, è un problema reale e urgente che va affrontato con efficacia e responsabilità. La soluzione non è redistribuire la ricchezza da chi ha di più a chi ha di meno, né quella di definire un salario minimo per legge svincolato dai reali processi di produttività aziendale, ma quella di creare le condizioni per una crescita economica inclusiva e sostenibile, che generi opportunità per tutti.
Questo significa garantire la libera concorrenza, la tutela dei diritti di proprietà, la sicurezza giuridica, la riduzione delle tasse e della burocrazia, l’istruzione meritocratica e selettiva, una maggiore produttività aziendale per salari più alti e la solidarietà volontaria. In questo modo, si rispetta la libertà e la dignità delle persone, si incoraggia l’iniziativa privata e si promuove il benessere sociale.
È in questo senso che lo sviluppo tecnologico, vero motore della crescita economica, ha bisogno di libertà a tutto tondo. È per questo che la rivoluzione industriale non poteva verificarsi in Cambogia, ma nemmeno in Paesi europei dove la libertà era meno tutelata che in Gran Bretagna. Il progresso è stato il risultato del liberalismo.
Un liberalismo orgogliosamente imperfetto, come ogni fenomeno umano, ma indubbiamente fondamentale per lo sviluppo della persona.
Questo è ciò che Calenda doveva dire ma che non ha detto. Ad oggi tutto questo rimane un sogno ad occhi aperti, non di un sacerdote dell’ortodossia liberale, ma di chi guarda con preoccupazione al futuro dei propri figli, poiché il progresso senza libertà è un ossimoro.