Per non scendere a patti con le autocrazie c’è bisogno di una riglobalizzazione

È prudente che società democratiche, le cui economie sono fondate sul capitalismo di mercato, mantengano normali relazioni economiche con società autocratiche, le cui economie sono invece fondate sul capitalismo di Stato, quando queste società autocratiche diventano tanto più aggressive quanto più si arricchiscono, proprio grazie a quelle relazioni economiche?

E’ il dilemma che ha sollevato, in maniera dirompente, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ed è un interrogativo che si pone Gianmarco Ottaviano, docente di Economia politica all’Università Bocconi, nel saggio “Riglobalizzazione”, in cui spiega – riporta Linkiesta – come da un lato la globalizzazione abbia creato un grande mercato integrato in cui poter sfruttare al meglio i vantaggi comparati dei vari Paesi e le economie di scala dei processi produttivi; unendo, dall’altro, i destini di nazioni con storie, culture, istituzioni, tradizioni e sensibilità in alcuni casi molto diverse tra loro. E i nodi, ora, stanno venendo al pettine.

Alle tensioni degli ultimi anni, i Paesi hanno risposto muovendosi perlopiù in due direzioni. La prima è quella del ritorno ai nazionalismi. Un approccio che, tuttavia, non è in grado di gestire l’accumularsi di emergenze globali che ci troviamo ad affrontare e che richiedono soluzioni internazionali. «Emergenza climatica, crisi migratoria, tassazione dei profitti delle imprese e gestione della pandemia sono una serie di problemi che possono essere risolti solo interagendo con gli altri paesi: – sostiene il professore – La più grande dimostrazione dell’assurdità di poter parlare di sovranità nazionale assoluta è proprio il cambiamento climatico».

Ecco allora la seconda direzione di sfogo delle tensioni politiche, quella che abbiamo sotto gli occhi in questo momento. Paesi che, avendo capito di non potercela fare da soli, cercano di selezionare le proprie alleanze in base ad affinità elettive di natura economica e politica. Di fronte ai limiti del nazionalismo, insomma, cercano una “riglobalizzazione selettiva”: tra amici fidati.

«L’idea sottostante è che un Paese possa garantirsi un futuro radioso solo se in pieno controllo della propria sicurezza nazionale anche sotto il profilo economico», spiega Ottaviano a Linkiesta. «Tutti i paesi che vedono lo sviluppo economico come un obiettivo, come sembra essere la situazione ad oggi in Cina, sono paesi con cui è più facile trovare dei punti di incontro che vadano al di là dello scontro ideologico». In questo senso si arriva alla conclusione, tra l’ovvio e il paradossale che, se economia e commercio vengono prima dei valori per un paese, quello è proprio il segno che ci si può fidare l’uno dell’altro.

Ma il professore continua: «Poniamo però che la “riglobalizzazione selettiva” in corso possa essere sostenibile dal punto di vista delle affinità elettive e che le tendenze in atto trovino conferma, portando i Paesi a dividersi in due principali sfere di influenza, americana e cinese, in competizione tra loro per l’egemonia planetaria. Ci ritroveremmo un mondo più sicuro di quello in cui attualmente viviamo? C’è da dubitarne».
Da un punto di vista politico si tratterebbe di una riedizione della dottrina della “distruzione reciprocamente assicurata”, in un’era però in cui la potenza devastatrice delle armi di distruzione di massa e il numero di Paesi che le possono usare sono cresciuti fortemente rispetto ai tempi della Guerra fredda. Da un punto di vista economico, poi, i fattori produttivi resterebbero comunque suddivisi tra i Paesi in modo ineguale e la tentazione di sottrarli con la forza agli altri resterebbe una minaccia costante alla sicurezza di tutti.

Ad esempio il cambiamento delle fonti energetiche avrà importanti impatti in termini geopolitici. «Il passaggio dagli idrocarburi alle fonti rinnovabili sarà una rivoluzione democratica» – dice provocatoriamente il professore. Perché queste ultime sono difficilmente controllabili da un solo soggetto e non rispettano alcun confine di sorta. La verità è che «questo fatto sposta il conflitto sul sull’accesso alle risorse, da ciò che genera l’energia, alle componenti che permettono a quell’energia di trasformarsi: ovvero ai minerali di transizione, che permettono di trasformare e accumulare l’energia elettrica. Questo porterà ad una nuova riconfigurazione della della mappa dei conflitti e degli alleati internazionali».
In tutto ciò, secondo Ottaviano, «il ruolo dell’Unione europea in questo momento resta critico». Infatti se da un punto di vista economico l’Ue interagisce molto sia con gli Stati Uniti che con la Cina, dal punto di vista delle alleanze strategiche sta con gli Usa. O meglio, è proprio dipendente dalla protezione americana, per quanto riguarda la propria sicurezza nazionale. «Almeno dall’invasione dell’Ucraina ci siamo tutti resi conto che l’Europa, da sola senza la Nato, e senza il suo arsenale e le sue competenze tecnologiche, non sarebbe affatto in grado di difendersi a sufficienza».

La realtà è che il terzo polo geopolitico mondiale si trova in una situazione per certi versi simile a quella della Cina, che è una potenza economica, ma non una potenza militare. «Quindi il ruolo dell’Ue, in questo momento storico, è proprio quello di cercare di trasformare il suo primato economico anche in un’indipendenza strategica dal punto di vista militare. Questo sarà al centro del dibattito dell’Ue in termini di visione di lungo periodo, al di là delle attuali contingenze».
Nonostante il processo di trasformazione in atto, insomma, secondo Ottaviano «solo l’approccio multilaterale nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale può cementare la sicurezza di tutti i Paesi nella fiducia e nel rispetto reciproci, riflettendone le esigenze in modo inclusivo. Non esistono soluzioni locali a problemi globali. Non esiste sicurezza nazionale senza sicurezza internazionale».