Il vaso è colmo, stop a «dichiarazioni al limite, parole gravi, espressioni calunniose inaccettabili» da parte di un diplomatico. Di che stiamo parlato? Di “uscite” evitabilissime. Si va dall’inopportuna ironia per il mancato invito all’ambasciatore russo alle cerimonie della festa 2 giugno da parte del capo dello Stato, Sergio Mattarella; alle dichiarazioni contro i giornalisti italiani che farebbero solo disinformazione contro il sistema di interessi del Cremlino.
Beh, è tempo di smetterla di parlare male del nostro Paese: le insinuazioni dell’ambasciatore e del ministero degli Esteri russo sulla amoralità delle istituzioni italiane non solo sono «offensive», ma anche paradossali. Eh già, perché l’idea che l’Italia stia organizzando un complotto politico-mediatico ai danni di Mosca fa già ridere così. È il mondo che va alla rovescia, un vero disastro: è Biancaneve che bastona sulla testa i nani della foresta, la Bella Addormentata che non si addormenta, la povera Cenerentola che resta zitella e fa la guardia alla pentola, per usare le parole di quel grande visionario che è stato Gianni Rodari. Mario Draghi però non è rimasto a guardare. Ha deciso di risolvere il problema alla radice: da qui la decisione di mandare a chiamare Sergey Razov.
E per l’ambasciatore russo qualcosa è cambiato dopo la convocazione concordata nel week end da Mario Draghi con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Razov non potrà più tenere il contegno assunto nelle ultime settimane, a meno che non voglia mettere a rischio la sua permanenza nel nostro Paese. Il colloquio «franco e teso» con Ettore Francesco Sequi, il segretario generale del ministero degli Esteri, è stato molto più che una strigliata. Più giusto definirlo un altolà della Farnesina all’ambasciatore affinché cambi strategia comunicativa. Draghi è stufo delle continue provocazioni di Mosca: non ci sta al rovesciamento dei ruoli. Tantomeno gli va giù l’idea che Roma sia considerata il ventre molle dell’alleanza atlantica; Putin deve accettarlo. E il fatto che la tv italiana dia voce anche ai filo-putiniani nelle trasmissioni non è un segno di debolezza, ma semplicemente la prova che in democrazia è consentito ascoltare più campane. È un’implicita manifestazione di quanto l’esecutivo nostro sia lontano anni luce dai modi di fare dispotici del Cremlino, che hanno il controllo dell’informazione.
“La libertà di stampa da noi è sancita dalla Costituzione. Forse in un certo senso non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia così inquietato con un giornale italiano che poteva esprimere degli atteggiamenti di critica, perché in fondo lui è l’ambasciatore di un Paese dove non c’è la libertà di stampa. Da noi c’è e da noi si sta molto meglio. Glielo direi subito”, le parole di Mario Draghi a marzo scorso, indirizzate proprio a Razov, che si è recato a piazzale Clodio a Roma per depositare un esposto in cui si ipotizzava l’istigazione a delinquere e apologia di reato in merito ad un articolo uscito sul quotidiano «La Stampa».
Razov però non sembra aver recepito ancora il messaggio: «La linea di propaganda che sta dominando nei media italiani difficilmente può essere qualificata se non ostile». In una nota si legge: «L’ambasciatore ha chiesto moderazione ed equilibrio, tradizionali nella politica estera italiana, nell’interesse del mantenimento di relazioni positive e di cooperazione a lungo termine con il popolo russo». Cosa accadrà nelle prossime ore? Si va verso l’espulsione?