A poco più di due mesi dal voto referendario sui quesiti che interessano il mondo giustizia, scoppia la bagarre al vertice di maggioranza tenutosi ieri, in concomitanza con il primo giorno di votazione in commissione sulla riforma Cartabia. I punti di frizione riguardano quasi tutti gli elementi della prevista riforma, dalla modalità di elezione del CSM, alla separazione di funzioni tra giudici e pubblici ministeri, dalla responsabilità civile dei magistrati (che non sarà oggetto di quesito referendario) al rispetto del decreto sulla presunzione di innocenza e annesse conseguenze disciplinari per i magistrati che lo dovessero violare.
Forza Italia, Lega e Italia Viva non intendono cedere sul sorteggio temperato per l’elezione al CSM e sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, mentre il Movimento 5 stelle e il PD, seppur con gradazioni diverse, si oppongono. Vano è stato il tentativo del ministro Cartabia di stralciare questi punti dalla discussione. Ieri a far saltare letteralmente il banco è stata la richiesta del responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa, il quale ha chiesto il ritiro dell’emendamento Bazoli che cancella le sanzioni disciplinari per il mancato rispetto del decreto sulla presunzione di innocenza. Anche su questo punto il movimento 5 Stelle e PD (di cui Bazoli è esponente) hanno fatto muro.
Alla fine, anche l’unico punto su cui pareva vi fosse maggiore convergenza rispetto alla proposta Cartabia, ossia la disciplina delle cosiddette porte girevoli (cioè il rientro in magistratura di quei magistrati che sono stati eletti o hanno svolto funzioni direttive in organi ministeriali), non si è tradotto in un vero e proprio accordo. L’ennesima fumata nera ha fortemente infastidito lo stesso Ministro della Giustizia il quale ha preteso un accordo entro oggi, pena l’apposizione delle quesitone di fiducia sul DDL. Questi in sintesi i fatti.
Che cosa dedurre da tutto ciò è cosa abbastanza evidente. All’interno della maggioranza la coesistenza dell’ala garantista e quella giustizialista è destinata a rendere sempre più difficoltoso il percorso di riforma della giustizia. Sono proprio mondi lontani e paralleli quelli che animano le due fazioni, che riflettono visioni antitetiche di che cosa dovrebbero essere la giustizia e la magistratura nel nostro paese. Da una parte, ci sono coloro i quali vorrebbero inquadrare in regole precise il potere giudiziario che negli ultimi trent’anni è esondato dalle tradizionali funzioni costituzionali per assumere sovente ruoli che francamente, non gli competono; dall’altra vi è chi pare ancora fortemente schiacciato su una magistratura militante destinataria di un potere quasi privo di vincoli, alfiere di una legalità a senso unico e che superiorem non recognoscens.
Il nodo non è semplice da sciogliere proprio per l’opposta cornice di riferimento su cui si muovono queste due anime della maggioranza e che costituisce il leitmotiv della contrapposizione. Innanzi a questa stasi che rischia di sboccarsi solo con un atto di forza, ancor più importante è quindi l’esito dei referendum, vale a dire l’espressione del corpo elettorale per una giustizia realmente giusta che possa riequilibrare un sistema attualmente sbilanciato, come ben sa chi frequenta tutti i giorni i palazzi di giustizia. Non vi è dubbio che una riforma integrale e sistemica sia necessaria per porre argine a tutte quelle disfunzionalità che rendono l’amministrazione della giustizia un freno, anche economico, per il nostro Paese. Oggi, con in ballo i fondi del PNRR, ogni ritardo è inaccettabile. Se la politica non riesce a farlo dimostrando ancora una volta la propria incapacità, dovrà essere il corpo elettorale a dare un chiaro e deciso segnale in tal senso.