Non c’è spazio per un regime autoritario e teocratico alla Biennale di Venezia 2024. L’organizzazione Woman Life Freedom ha lanciato un appello per escludere l’Iran dalla prossima esposizione culturale, ottenendo il sostegno di numerose figure culturali e artistiche, tra cui l’artista iraniana Shirin Neshat e rinomati registi come Marjane Satrapi, Marco Bellocchio e Nanni Moretti. Un paese del genere non dovrebbe ottenere legittimazione o visibilità sulla scena internazionale a causa della rigida censura dell’espressione artistica e della persecuzione degli artisti non conformi.
Per 44 anni, il governo iraniano ha imposto una rigida censura su varie forme di espressione artistica, rendendo estremamente difficile la pratica dell’arte per gli artisti che non si allineano alla narrativa ufficiale. Questa censura ha portato a arresti e persecuzioni a chi osava sfidare lo status quo.
Ma il focus della polemica va oltre le questioni artistiche. Negli ultimi tempi, l’Iran è stato coinvolto in conflitti geopolitici, ultimo, e più importante, il ruolo di supporto ad Hamas nella questione israelo-palestinese.
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Escludere l’Iran dalla Biennale di Venezia sarebbe un gesto significativo di solidarietà nei confronti delle voci dissenzienti iraniane e una presa di posizione simbolica contro le politiche estere dell’Iran. È un messaggio non solo a favore della libertà artistica, ma anche per affrontare le più ampie preoccupazioni geopolitiche nella regione.
La polemica sulla partecipazione dell’Iran a eventi culturali internazionali non è una novità. In passato, quando Massimo Bray, il direttore del Salone del Libro, invitò ufficiali iraniani a Torino, scatenò una campagna di condanna.
Il punto è che da troppo tempo l’Iran è una prigione a cielo aperto per artisti, come dimostrano le dichiarazioni di Rahim Safavi, un capo dei pasdaran, che l’ha messa così: “Dovremo tagliare la gola a qualcuno e la lingua a qualche altro”. Alla Biennale, come al Salone del libro, non c’è posto per l’Iran.