di Alfredo Foresta
Ripartiamo dal Bel Paese, quello del XXXIII canto infernale, “del bel paese là dove ‘l sì suona”, che designava la penisola, non ancora Italia, grazie alla mitezza del clima, alla natura e alla sua storia culturale. La locuzione dantesca (ma anche petrarchesca, Canzoniere, CXLVI, 13-14) è utilizzata ancora oggi come sinonimo di “Italia”, grazie alle medesime caratteristiche. Volgendo lo sguardo alla Storia, senza alcuna pretesa passatista, è facile rintracciare una straordinaria continuità di “Bellezza” che nel tempo ha arricchito lo stivale al centro del Mediterraneo.
E sempre guardando alla Storia del Belpaese non si può fare a meno di constatare due cose: la prima è che questo rapporto con la Bellezza sembra essersi incrinato recentemente; la seconda riguarda la genesi di tanta Bellezza. La continuità nei secoli nel produrre Bellezza era generata da una serie di fattori: il coraggio di una committenza lungimirante, la visione di architetti capaci di intercettare tale lungimiranza e tradurla in manufatti da consegnare ai posteri e maestranze capaci di rendere concrete le visioni lungimiranti dei committenti/architetti. Le opere pubbliche volute da quella committenza e affidate agli architetti e alle maestranze dell’epoca sono oggi il patrimonio, forse l’unico vero patrimonio, di questo Paese altrimenti piuttosto malandato. Sono il capitale che possiamo/dobbiamo spenderci per competere con le potenze globali.
Non abbiamo detto nulla di nuovo. Finora. La necessità di tutela di questo straordinario patrimonio ha generato spesso un atteggiamento conservatore tutto teso a congelare il bene affidatoci dai padri per poterlo consegnare ai nipoti. Questo atteggiamento, credendo di saper interpretare il compito ereditato dalla Storia, non tiene conto, invero, di come e di quanto la Storia, nel corso dei secoli, abbia saputo reinterpretare e reinventare quel patrimonio, arricchendolo, potenziandolo o adeguandolo ai tempi, fermo restando il trinomio vetruviano venustas, utilitas, firmitas, che ha ispirato i grandi architetti del passato, laddove per architetto dobbiamo intendere il “capo costruttore” (dal gr. ἀρχι-τέκτων), ovvero colui che gestisce l’intera progettualità costruttiva. Nei secoli passati architetti e amministratori della cosa pubblica hanno lavorato insieme dando vita a modelli capaci di inglobare il valore identitario del luogo e, contemporaneamente, generare bellezza intesa come visione, arte e tecnica, coraggio e responsabilità.
Quando abbiamo interrotto la continuità nel produrre Bellezza in ambito pubblico? Quando il rapporto interscambiabile tra committenza (oggi lo Stato), ἀρχι-τέκτων e maestranze è diventato altro rispetto alla lungimiranza condivisa nella tensione verso l’eternità?
Lo Stato
Oggi lo Stato deve creare le condizioni affinché si realizzi un nuovo rinascimento italiano.
Il progetto
Il recupero del DNA italiano in termini di visione, costruzione e gestione del nuovo spazio pubblico deve avere lo stesso peso dell’eredità ricevuta da tramandare. Una buona politica deve riscattare l’unità nazionale nella spiritualità e nei principi generatori della nostra Bellezza: visione, arte e tecnica, coraggio e responsabilità; un unico disegno arricchito dall’architetture delle tante peculiarità del nostro territorio. La politica deve coinvolgere le migliori realtà del Paese, attraverso il valore della scelta intesa come capacità di progettare; il progetto in tutte le sue declinazioni determina le ragioni di un dibattito critico, coinvolge e appassiona, indica le ragioni e i perché; una netta inversione di tendenza da non confonde con l’imperante politica della partecipazione dal basso, costantemente alla ricerca di idee popolari in chi non ha gli strumenti del sapere.
Obiettivi
Obiettivo primario non può che essere quello di restituire alla committenza (ovvero allo Stato) il ruolo di produttore di Bellezza attraverso opere pubbliche che, nel rispetto del trinomio vitruviano, possano dignitosamente competere con le grandi opere del passato. Perché lo Stato committente ha il dovere di educare la sua gente alla Bellezza, che altro non è che la capacità di appagare l’animo attraverso la contemplazione. Educare alla Bellezza non è un processo immediato e semplice: ha bisogno di tempo e di un’azione concertata, “architettata”, multidisciplinare. Per educare l’occhio a vedere la Bellezza non basta che l’oggetto contemplato sia bello ma che l’occhio che lo guarda sia allenato a riconoscerne la Bellezza (magari ripristinando o potenziando le ore di Storia dell’Arte nelle scuole del Belpaese).
Edificare
Edificare significa recuperare il valore etico ed estetico dei costruttori e dei progettisti ma la committenza deve ritrovare il coraggio di investire nelle opere pubbliche non solo nella logica della necessità e del massimo rendimento ma come occasione per produrre Bellezza, bene altrettanto spendibile e monetizzabile ma altresì identitario di una cultura e di un tempo storicamente accertabile.
Questo non sarà possibile fino a quando il criterio prevalente di valutazione di un’opera pubblica rimarrà l’”offerta economicamente più vantaggiosa”, con tutti i suoi effetti (ivi compresi i ricorsi amministrativi), e fino a quando la responsabilità della procedura sarà affidata alla figura del RUP, il cui unico obiettivo è quello di assicurarsi che la procedura da un punto di vista amministrativo si inattaccabile in sede di ricorso o davanti all’ANAC.
E fino a quando il processo di edificazione si interrompe con la realizzazione dell’opera, trascurando completamente la fase successiva di manutenzione e conservazione perché ricadente nelle successive legislature e, quindi, onere altrui. Il controllo di qualità della realizzazione di un’opera pubblica e la sua longevità devono diventare elementi di riflessione per chi voglia o crede di poter amministrare il Belpaese.
Per non parlare del ruolo delle Soprintendenze, nate a tutela del suddetto patrimonio, che un redivivo Marinetti condannerebbe in toto per intralcio al progresso del Belpaese. Il patrimonio culturale non deve rappresentare un ciclo finito da “conservare”; con responsabilità, le nuove generazioni hanno il dovere di alimentarlo e arricchirlo, secondo il principio naturale del ciclo della vita.
La qualità dell’abitare, lo sviluppo sostenibile, i processi di integrazione sociale, lo sviluppo armonico, se non affrontati mettendo al primo posto l’approccio dell’architetto ἀρχι-τέκτων, sono condannati a trasformarsi in slogan privati di senso.
Ripartiamo dall’architettura
Eliminiamo dal nostro vocabolario collettivo termini come “edilizia”, “OEPV”, “case popolari” etc., che hanno generato, soprattutto negli anni del cosiddetto boom economico (quando ha smesso i panni dell’onomatopea e ci è esploso in faccia), una visione umiliata dell’opera pubblica in generale, per cui oggi si fa effettivamente fatica a ricordarne una degna di considerazione da raccomandare al turista che viene a trascorrere le ferie in Italia.
Ministero dell’Architettura e dello stile italiano
Il più importate dicastero dei prossimi anni, capace di declinare le necessità del paese (piano di manutenzione e di salvaguardia ambientale) e promuovere il ruolo dell’Italia in Europa e nel Mondo non può che essere un Ministero dedicato allo stile italiano e alla progettualità architettonica. Un Ministero che sappia promuovere una sana e credibile azione politica di sviluppo economico e sociale capace di ri-generare fiducia, credibilità e stabilità, attraverso azioni immediate atte a tutelare il diritto alla creatività, incoraggiare il “genio”, favorire le “imprese ardite” che hanno il coraggio di osare attraverso le architetture.
La Visione, l’Arte e la Tecnica devono tornare ad essere insieme al servizio della politica nazionale. La Bellezza e l’efficienza delle città italiane in un rapporto di “kalokagathia” devono promuovere il pil del paese in un progresso sociale, etico e tecnologico. Da qui una legge sulla qualità dell’architettura chiara ed innovativa, che deve, nel solco della tradizione del Belpaese, divenire modello per gli altri Paesi.
La Visione: Italia 2048
Proviamo ad immaginare un’impresa “epica”, nel solco della nostra storia, il cui termine è stato volutamente fissato nel 2048, anniversario dei duecento anni della “primavera dei popoli”, moti rivoluzionari che in nome della liberta interessarono tutta l’Europa. Proviamo ad immaginare un rinnovato Gran Tour lungo una penisola che, come nel Settecento, si offra in un armonico bilancio tra tradizione e modernità con nuove infrastrutture in grado di “stupire”, di divenire avanguardia e sperimentazione; i modelli costruttivi dovranno edificare una nuova coscienze europeista, esempi virtuosi di buone pratiche e trasformare definitivamente l’attuale l’Italia nel Bel Paese ritrovato. Le città italiane del 2048 dovranno tornare ad essere sane, libere ed equilibrate, generatrici di equità e integrazione, non globalizzate all’indifferenza, non vittime dell’assolutismo della mediocrità. Trent’anni non sono pochi per un progetto così ambizioso se spesi bene e, soprattutto, se cominciamo senza indugi.