di Nicola Iuvinale
La tripartizione dei poteri dello Stato è alla base delle moderne democrazie liberali.
La Costituzione stabilisce che la Repubblica abbia un Governo che detiene il potere esecutivo, un Parlamento che esercita quello legislativo (attraverso gli eletti direttamente dai cittadini) e l’ordine Giudiziario che esercita la funzione giurisdizionale.
La magistratura gode di assoluta indipendenza ed ha nel Consiglio Superiore della Magistratura il suo organo di autogoverno.
I poteri, le funzioni degli organi, devono essere separati, cioè va evitata il più possibile l’invasione di campo dall’una all’altra parte.
La separazione dei poteri regge l’impalcatura democratica nello “Stato di diritto” ed eventuali “sbilanci” possono creare delle sensibili ed evidenti fratture.
Negli ultimi anni si è assistito “all’indecisionismo politico” di tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione, più occupati a garantirsi il gradimento degli elettori, anziché provvedere nel Parlamento.
Inutili proclami elettorali manifestati sui social, sui giornali, sul web e mancanza di decisione nelle “stanze istituzionali”.
Anche il modus operandi del Governo – che negli ultimi anni ricorre con sempre rinnovata frequenza allo strumento del decreto-legge (ottenendone poi la conversione in legge dal Parlamento attraverso il continuo ricorso al voto di fiducia), utilizzando, per la disciplina dei profili sostanziali, “decreti di natura non regolamentare” non pare conformarsi correttamente ai precetti costituzionali.
I provvedimenti normativi si sottraggono, così, alla necessaria dialettica parlamentare.
Ed il tutto è favorito anche da un Parlamento, sempre più inerte, che finisce per porre il sistema delle “fonti del diritto” ad una torsione sempre più “autoritaria” e marcatamente tecnocratica, rimettendone frequentemente la creazione nelle mani dell’esecutivo e dei Ministeri.
La produzione normativa, anche con il facile ricorso alla legge delega al Governo, si sposta, quindi, sempre più dalle mani del Parlamento (cioè dei cittadini) a quelle del Governo, generandosi una normazione talvolta abnorme, tecnicistica, di difficile comprensione ed attuazione.
Ed il potere Giudiziario, con la partecipazione “dirigenziale” nei Ministeri (es. magistrati in aspettativa con nomina dirigenziale nei vari Ministeri, anche in quello della Giustizia), finisce per invadere il campo del potere esecutivo, determinandosi una commistione di visioni e di azioni.
A ciò, si somma anche l’ironico gusto, che si intravvede tra le righe di certe tendenze della Giurisprudenza, di mettere in evidenza le manchevolezze delle leggi e di far ricadere tutte le colpe sull’inerzia del legislatore che non provvede. E l’atteggiamento dell’ordine giudiziario, che non corrisponde più ai doveri costituzionali, per accorgersi della Costituzione e delle mete che essa segue, non ha più bisogno di passare attraverso il tramite del legislatore.
Queste le parole di Piero Calamandrei, quasi settanta anni fa.
L’atteggiamento di certa giurisprudenza, quindi, di volersi “sostituire al legislatore” attraverso “sentenze interpretative” – che tentano di colmare presunti vuoti normativi -, non è propriamente consono ai dettami costituzionali, soprattutto quando si “omette” di rimettere l’interpretazione della legge all’intervento della Corte Costituzionale.
E così, l’assenza della politica, ossia il non fare per non scontentare, ha portato anche alla “degenerazione economica” del sistema Paese. Abbandonare la strada della crescita economica per sostituirla con debito pubblico e tasse.
Oggi, l’impalcatura dello “Stato di diritto” appare fortemente incrinata.
La politica e la magistratura hanno la responsabilità di riportare l’ago della bilancia al centro.
Lo si deve anche per assicurare la stabilità delle funzioni costituzionali, essenziali per la sopravvivenza dello “Stato di diritto”.