Lavoro e trasformazione digitale: serve un new deal per preparare il futuro

Specialista SEO, sviluppatori di app, influencer, autista Uber, operatori di droni: sono solo alcune delle nuove professioni che fino a pochi anni fa non esistevano o stavano per vedere la luce. Smart working, app che misurano l’assumibilità, luoghi di coworking. Le innovazioni investono ogni ambito dei contesti economici e produttivi, imponendoci nuovi modi di pensare, di vivere, di lavorare.

Siamo nell’era della cosiddetta digital trasformation, che ha profondamente modificato e sempre più modificherà i tempi, i modi e luoghi della produzione, creando nuove occupazioni e decretando la morte di altre, modificando la modalità con cui vengono svolte tutti i lavori e le competenze richieste da quelli tradizionali. L’innovazione tecnologica sta accelerando il progresso in ogni campo, i robot e l’intelligenza artificiale e la progressiva digitalizzazione dell’economia lasciano prefigurare performance e capacità straordinarie.

Ma siamo pronti ad affrontare la sfida? Il nostro Paese sarà in grado di cogliere le opportunità che la trasformazione digitale offre, non soccombendo e lasciando che gli impatti producano solo la cosiddetta disoccupazione tecnologica?

La nostra classe dirigente politica, che ha il dovere morale di traghettarci verso il futuro, ha individuato una strategia percorribile, un New Deal, un programma socioeconomico sostenibile? Domande da porsi, necessariamente.

Un recente studio di McKinsey, condotto in tutto il mondo su 46 Paesi, sostiene che il 49% delle attività attualmente svolte dai lavoratori potrà essere automatizzata usando “tecnologie già sperimentate” da qui al 2030. E ad essere interessate non saranno esclusivamente i lavori manuali, ma anche quei settori, quali la finanza, la sanità e il commercio, che, tradizionalmente, immaginiamo più lontani dall’influenza dei robot.

Secondo le previsioni del Joint Research Centre della Commissione Europea, invece, ad essere più esposti al rischio automazione e sostituzione saranno i lavori più routinari, quelli che richiedono più modesti livelli di istruzione formale e che necessitano di una minore capacità di interazione sociale. E saranno, invece, i profili legati all’intelligenza artificiale, ai big data e alla tecnologia ad avere maggiore richiesta da qui al 2030.

D’altro canto, inevitabilmente la trasformazione digitale e i robot creeranno nuova occupazione, delineando il fabbisogno di nuove competenze e ruoli. Secondo uno studio dell’OCSE, si calcola che i lavori davvero a rischio saranno solo l’8-10%, mentre un altro 20-25% non sparirà ma cambierà radicalmente. Il punto, dunque, non è quanti lavori verranno sostituiti dai robot e quanti invece ne verranno creati, ma quanta diversità sarà prodotta dall’innovazione tecnologica.

Previsioni, certo, che, però, la semplice osservazione della realtà non fa che confermare. La crisi socio-economica iniziata nel 2008 e la trasformazione digitale che ormai riguarda ogni aspetto della nostra vita e della nostra economia hanno determinato profonde modifiche nella produzione e nell’economia, hanno stabilito nuovi equilibri nella organizzazione del lavoro e hanno decretato una ‘supremazia’ dell’occupaizone a maggiore intensità di conoscenze e competenze.

Interrogarsi sulle ricadute che potrà avere l’innovazione tecnologica sul lavoro e sulla produzione per immaginare pratiche e strategie politiche e organizzative adeguate è doveroso: quali sono e saranno le nuove professionalità dell’economia 4.0? In che direzione, con quali strumenti modi e tempi andranno riqualificate le competenze dei lavoratori? Quale trasformazione subiranno i sistemi produttivi e i lavori attuali?

Domande alle quali una classe politica responsabile e seria non può non provare a dare risposte. A darle ambiziose. Perché ambiziosa è la sfida da affrontare.

Investimento in capitale umano, formazione anche continua, aggiornamento delle competenze in linea ciò che i nuovi lavori richiederanno, individuazione delle traiettorie di sviluppo coerenti con le vocazioni territoriali e immaginate alla luce della trasformazione digitale: da qui parte il New Deal del lavoro del futuro. Ma la politica sembra non interessarsene.

Nel nostro Paese, proprio la presenza di settori – pensiamo a tutti quelli del made in Italy – altamente specializzati e capaci di generare valore aggiunto se adeguatamente sostenuti nell’affrontare la sfida tecnologica può determinare l’innescarsi di un circolo virtuoso, in cui solo la presenza congiunta e sinergica di strategie di innovazione, formazione e sviluppo potrà determinare il verificarsi delle condizioni indispensabili al rilancio dell’intero sistema produttivo.

Osservare questo cambiamento attraverso con le lenti deformate del ‘900, con lo sguardo rivolto al presente, dedicando le proprie energie all’alimentazione di inutili e superflue paure al solo scopo di distogliere l’attenzione dai problemi reali e dalle necessità concrete del nostro Paese, significa non essere in grado o non voler cogliere la sfida che il nostro sistema produttivo e i nostri lavoratori dovranno inevitabilmente affrontare se vogliono sopravvivere e avere l’occasione per creare le basi per un rilancio definitivo del sistema Italia. Significa sottovalutare la caparbietà, la capacità di adattamento, la genialità di un mondo produttivo, quello italiano, che con il suo piglio artistico e creativo e se messo nelle condizioni di provarci, la sfida della trasformazione digitale potrà essere in grado non di affrontarla, ma di vincerla, approdando nel ‘nuovo mondo’ da protagonista e non al rimorchio di altri.