La pandemia ci ha spinto a ricercare nuove abitudini di vita, anche lavorativa, sicuramente innovando i sistemi di produzione, laddove possibile, attraverso l’uso della telematica e dell’informatica. Congressi via web, corsi di formazione webmail, riunioni di lavoro virtuali e da casa in diretta web, e ancor prima della pandemia esisteva già nei tribunali il processo telematico, dallo studio di casa, udienze telematiche, persino le assemblee condominiali su wattsapp. I sistemi di comunicazione sono cambiati con l’innovazione tecnologica, grazie ad essa. Pensate al calo del P.I.L. se non fosse esistita la telematica, l’informatica, sarebbe stato sicuramente 3 volte l’attuale previsione.
È tuttavia certo, che la telematica ha anche mutato le abitudini di vita: non c’è più la pausa caffè al bar con i colleghi/e, non esiste la pausa pranzo al fast food. Il lockdown ha persino cambiato le abitudini dei consumatori: più acquisti via web, meno acquisti nei centri commerciali e, qualche anziano che non sapeva usare Amazon ha acquistato nel negozietto sotto casa. Amazon è schizzato alle stelle, con l’inevitabile conseguenza della chiusura di molti centri commerciali. Eppure qualche anno fa i centri commerciali erano sotto accusa perché rei di far concorrenza ai piccoli commercianti del negozietto sotto casa, sino a causarne la chiusura. Qualcuno sostenne la loro chiusura domenicale per evitare lo sfruttamento dei dipendenti, costretti a lavorare anche nei giorni festivi. C’era chi azzardava addirittura che i centri commerciali esteri prelevassero la liquidità dei consumatori italiani per trasferirla in deposito nelle banche dei conti esteri nei paesi Europei di ubicazione della sede delle multinazionali commerciali.
Il lockdown ci ha imposto e costretto a privilegiare altri mezzi di comunicazione, ad utilizzare altre metodologie di acquisto e scambio commerciale, sino a divenire più globali senza rendercene conto. Abbiamo abbattuto spazi e tempi, eliminando ogni barriera. Posso acquistare direttamente a Hong Kong oppure a Parigi piuttosto che a Londra, o anche al centro commerciale o sotto casa. Anche il consumatore si è globalizzato. Eravamo abituati ad un modello di globalizzazione in cui l’industria produceva laddove la manodopera costasse meno, ma anche il consumatore ha iniziato ad acquistare la merce laddove si trova ad un prezzo più conveniente. E se il lockdown ha accelerato la legge del libero mercato globale, il lavoro agile ha mutato le abitudini di milioni di lavoratori.
Milioni di lavoratori emigrati del meridione che lavorano a casa loro, dal Sud per imprese del Nord e spendono al Sud i loro salari. Questa prassi aiuta a riequilibrare le diseconomie territoriali e i fenomeni demografici legati all’emigrazione verso il Nord. Ma vi è più: i lavoratori restano più tempo in famiglia, seppur lavorando. Parlano di più con i figli adolescenti, dei loro problemi a tavola, durante il pranzo, anziché parlare di lavoro con i colleghi in pausa caffè o al fast food. Girano meno mezzi pubblici e privati, riducendo il traffico sulle ruote gommate nelle ore di punta e persino il traffico aereo; meno inquinamento a livello globale, minore percentuale di incidenti, migliore qualità della vita, resa frenetica, anche a causa dello stress da pendolarismo.
Tutto ciò significa: calo delle polizze assicurative; calo dei costi del carburante per autotrazione, calo dell’inquinamento. Calo dei costi aziendali per affitto di locali. Oggi è in atto un dibattito, oramai atavico per la politica italiana, che rappresenta un macigno per le future generazioni, la manovra sulle pensioni, sui costi relativi all’incidenza del sistema pensionistico riguardo al debito pubblico. Quota 100 voluta da Salvini e la Lega, a parte le sue vocazioni propagandistiche, ha sortito un ulteriore effetto negativo sul bilancio dello stato. Oggi si discute se abrogarla prima della sua scadenza naturale. Ed invero, si potrebbe pensare ad un sistema di flessibilità in uscita graduale ( ad es. smart working obbligatorio dopo i 58 anni sino a 68 anni), una manovra indubbiamente a costo zero che andrebbe a migliorare la qualità della vita del lavoratore anziano, costretto a restare in azienda per le falle dei costi del sistema previdenziale, divenute insostenibili. Occorre allora ripensare il futuro.
La nostra è una generazione che sta pagando alto il prezzo degli sprechi del passato, della politica fai da te della propaganda. I nostri figli pagheranno un prezzo ancora più alto. E allora ? Sarebbe il caso di mettere l’uomo al centro del dialogo politico sulle pensioni, migliorando la sua qualità di vita, senza toccare l’età pensionabile al ribasso che indebiterebbe inevitabilmente le future generazioni. Non si tratta solo di ripensare il futuro dei lavoratori anziani, ma migliorare anche il futuro delle giovani generazioni; innovare secondo modelli di sviluppo sostenibile. Rendere più flessibili i contratti. Si tratta di investire risorse pubbliche che promuovano un modello di società informatizzata. Occorre non sprecare risorse utili, come il reddito di cittadinanza, che servono a rieducare il percettore verso la cultura dell’assistenzialismo e del non lavoro.
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva PARTECIPAZIONE, di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese”, lo stesso art. 3 della Costituzione, norma cardine del nostro sistema, esprime un concetto libertà di cui la destra italiana è sempre stata il propulsore: la partecipazione del lavoratore. Non è un modello di uguaglianza, intesa in senso strettamente “comunista” quale appiattimento assistenziale, come il reddito di cittadinanza, ma rendere patriottico l’essere sociale e membro di uno stato, l’uguaglianza di opportunità, inclusiva, che rende pieno il diritto di cittadinanza, con la partecipazione.
Pensiamo allora, in tempi di crisi e perdita di posti di lavoro fisiologica, ma emorragica post Covid, a risorse spese per ridurre l’orario degli occupati a parità di salario, per includere nuovi disoccupati, anziché distruggere risorse con il reddito di cittadinanza, che degenera la partecipazione, relegando il sussidio a mero assistenzialismo. Tuttavia accade che, come in ogni rivoluzione, restano sulla strada anche i cadaveri delle vittime. Occorre aiutare e convertire le imprese di ristorazione e le mense di lavoro, attraverso un generale programma di ristrutturazione e conversione del servizio che diriga l’offerta anche verso la distribuzione da asporto o verso una fetta di mercato diverso: ad es. il mercato di ristorazione turistica, indirizzando la domanda con incentivi verso un turismo di massa, non solo nelle città turistiche, ma anche nelle città metropolitane, che avvertono di più questa flessione del mercato dovuta alla desertificazione delle città a causa del lavoro agile imposto dalla pandemia.
Resta una pausa di riflessione da fare: la crisi del mercato della ristorazione industriale e delle mense di lavoro, rappresenta la crisi di un modello postfordista che basa le sue certezze di mercato su un vecchio redaggio di società industriale fordista oramai superato. I buoni pasto non sono più una conquista sindacale, ma rallentano il processo di modernizzazione delle aziende. La loro funzione è stata sostituita verso un modello integrante della retribuzione, hanno perso la natura contrattuale di benefit ( molte famiglie li usavano per fare la spesa nei supermercati ancor prima del lockdown).
Vale la pena sacrificare il mercato della ristorazione per ridurre l’inquinamento planetario? Oppure tutto deve essere osservato e dettato seguendo un sistema di contrattazione sindacale obsoleto, secondo lo stereotipo del modello consumistico fordista, che insegue il vecchio modello sociale dell’organizzazione del lavoro degli anni 70? Forse la verità è che il futuro ci fa paura. Non riusciamo a spogliarci del vecchio, ma ne avvertiamo la necessità. I sindacati dei lavoratori sono troppo distratti dalla loro attività di patronato e meno attenti alle dinamiche della contrattazione. Cerchiamo l’innovazione tecnologica, telematica, ma ancora oggi ci fa paura l’innovazione degli schemi. Siamo troppo virtuali e poco reali o viceversa? Troppo stressati perché troppo reali o perché troppo virtuali?
Vi è una sola certezza a queste domande: la pandemia ha rivoluzionato i nostri modi di vivere, ha rispolverato la vecchia famiglia, quella riunita a tavola, a pranzo e a cena, in cui il calore dei rapporti umani era dato dal focolare di casa. E però, accade che tutto questo ci fa paura, ci riscopriamo tutti adolescenti, con i rischi di una nuova sindrome di Hikikomori, perché abbiamo perso il contatto esterno del caffè al bar, con i colleghi a parlare di calcio. Siamo nostalgici? O forse non siamo maturi per la tecnologia. Eppure siamo da essa assuefatti. Tutti amiamo i social. Resta una amara constatazione: la rivoluzione è già iniziata dentro ognuno di noi, da tempo e, ancora oggi, siamo in ritardo, non ce ne rendiamo conto.