Coerenza politica, questa sconosciuta. Anzi, la vera coerenza è diventata l’incoerenza. La politica italiana ha fatto del trasformismo il costume dell’incoerenza e dell’inaffidabilità.
La differenza non la fanno le persone, perché le loro parole sono a rimorchio della causa che le genera. Ciò che orienta non è il diverso modo di pensarla, ma il fatto che si trovino al governo o all’opposizione. Sono convinti che il realismo sia un impiccio dei primi, mentre la demagogia un diritto dei secondi.
Ed è così che cambiano i governi, ma non si vedono le alternative, dato che si scambiano le parti in commedia. Questo è il populismo.
La politica è creazione del consenso, ma per esso, questo avviene sostanzialmente dividendo per parti il Paese e facendo scontrare una parte contro l’altra. In questo modo si perde il significato vero, non solo lessicale, ma anche culturale e identitario, del processo di costruzione del consenso cioè “sentire insieme”.
La politica che crea consenso dividendo e cercando lo scontro abdica al dovere più grande che ha: la costruzione di legami solidi di comunità.
Non ha senso lamentarsi se non si riesce a mettere in piedi una proposta alternativa.
Alle elezioni, la proposta del Terzo Polo aveva un senso perché iniziava un processo di integrazione. Non si può fare il centro restando fermi a guardia di noi stessi e del nostro percorso di parte, e continuare a commentare, da spettatori, cosa manca a sinistra e a destra senza avere la benché minima idea di come iniziare a costruire quello che possiamo generare dal centro.
Non si può fare se non abbiamo il coraggio, la visione, la speranza di dare vita a un progetto che sia più grande di noi, e questo non si realizza con la tecnocrazia della competenza, macinando proposte su proposte senza un filo conduttore, senza un’idea complessiva di Paese a cui dedicare, decidendo una volta per tutte, ciò che siamo e vogliamo essere. Un grande progetto muore nei confini angusti dell’egoismo. E il progetto più grande è quello di ricostruire un dialogo diffuso nel Paese, di riunire ciò che è stato diviso.
Nei giorni successivi alla morte di Berlusconi, giornali, televisioni, opinionisti di vario ordine e grado con annessi politici di vario orientamento, è stato parlato di tutto tranne di una cosa: la mancata rivoluzione liberale.
Poco importa se ci credesse realmente o no, sta di fatto che oggi questa non può più essere una intuizione visionaria, ma è diventata una necessità vitale non solo per il destino del Paese ma incide anche sul futuro dell’Europa.
La rivoluzione liberale non va più solamente annunciata, ma si impone la sua realizzazione se veramente vogliamo ricostruire quel dialogo diffuso oggi spezzato, superando la deriva di una politica disincarnata che vuole adattare la realtà a schemi preconfezionati e ideologici.
Se tutto ciò è rivoluzione liberale, il punto di partenza non può che essere quello di riformare la prima legge fondamentale che identifica un popolo, una nazione, una società: la Carta Costituzionale.
La riforma costituzionale non può più essere un’arma di distrazione di massa. Non è solo la revisione della seconda parte per definire un assetto istituzionale funzionale, ma la presa d’atto che occorre una svolta vera, una nuova fase che definisca un nuovo patto fondativo e costruisca, questa volta per davvero, la seconda Repubblica ripensando alla Costituzione anche nella prima parte.
La Repubblica italiana nasce in un contesto politico che obbligò, e non poteva essere diversamente, il mondo cattolico e quello comunista a sedersi allo stesso tavolo, permeando la Carta Costituzionale della necessità di coniugare il sentire di questi due mondi.
Sulla base di compromessi condivisi e concessioni reciproche, la Repubblica prese vita affermando nel tempo una cultura cattocomunista che, se in quel contesto fu necessaria e garantì indubbiamente emancipazione e sviluppo, dopo l’89, con il mutare delle condizioni geopolitiche, perde significato e si trasforma nella più forte e feroce cultura conservatrice. Ha mobilitato le varie lobby che hanno sempre sguazzato in una democrazia bloccata, mettendo in campo le più sfrenate pulsioni giustizialiste che portarono alla ribalta personaggi come Travaglio, Santoro, Vauro.
Veri e propri idoli che oggi diremmo “fortissimi punti di riferimento dei progressisti“.
Oggi, la rivoluzione liberale serve per affermare una società delle opportunità, del merito, dell’innovazione, dove il ruolo di uno Stato, indubbiamente leggero, deve garantire efficienza e trasparenza. Una politica che metta al centro i diritti dell’individuo, dove ciascuno si senta libero di manifestare e vivere le proprie propensioni affettive e inclinazioni sessuali, senza oneri per la collettività.
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Il nuovo patto fondativo, attraverso la nuova impostazione della Carta Costituzionale, deve essere espressione di questo nuovo sentire, deve rappresentare l’atto di rottura nei confronti della cultura cattocomunista.
Forza Italia nasce dalla stessa esigenza: affermare una svolta liberale nella storia italiana.
Smettiamola di guardare ad essa come ad un territorio da cannibalizzare, ma come un’esperienza da riprendere e valorizzare, rivitalizzando il mondo che ruota intorno ad essa che è molto più ampio del consenso elettorale che oggi ottiene.
Poco importa se l’illiberale Berlusconi l’ha fatta diventare un’anatra zoppa e oggi a rimorchio del populismo sovranista.
Essa ha rappresentato il più grande tentativo di rivoluzione liberale, con la redazione di un programma avanzato, e da questa ispirazione originaria bisogna ripartire.
Non ha senso pensare alla sua spartizione per aggiudicarsi lo zero virgola qualcosa, se poi non si riesce a rompere le catene che ci legano a questo bipolarismo bipopulista e a porre fine a quell’opportunismo politico che ha reso il termine liberale un vezzo per cercare consenso elettorale, nulla più. Con troppi sedicenti liberali in giro che passano con disinvoltura dal campo liberale a quello socialista e viceversa.
Il populismo sovranista rappresenta, piaccia o meno, una identità collettiva. Ad essa va contrapposta un’altra identità, non soluzioni tecniche ai vari problemi svincolati dai valori fondanti della società, e in questo caso dalla società liberale.
Dal distrutto Terzo Polo si ripartirà necessariamente da una federazione, questa volta, di tutte le espressioni liberali. Ma le ragioni dello stare insieme devono andare oltre la contrapposizione al bipolarismo bipopulista. Il collante deve essere la “Grande Riforma“, essere noi liberali i protagonisti della nuova fase costituente del Paese.
È il primo atto della rivoluzione liberale. Il lavoro è lungo e tortuoso, ma l’obiettivo è chiaro. Rafforzare le fondamenta della società liberale per creare un Paese che sia davvero di tutti, senza esclusioni. Un Paese dove ognuno abbia la possibilità di esprimersi liberamente, senza temere repliche o persecuzioni. Solo allora potremmo dire di aver realizzato una vera rivoluzione liberale.