La giustizia secondo Meloni smaschera il finto garantismo del governo

“Truffatori della libertà”. E’ il titolo, evidenziato in rosso, che campeggia oggi sulla prima pagina de Il Foglio di Giuliano Ferrara, che non fa sconto alcuno nel commentare i primi atti compiuti dal governo Meloni. Atti che confermano il finto garantismo, repressivo e carcerocentrico.

E spiace, perché più meno tutti avevamo preso sul serio alcune dichiarazioni programmatiche del nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio – sempre di segno tendenzialmente liberale -, che sono sintetizzabili più o meno in questo modo: la quantità dei reati va sfoltita, anche perché l’inflazione penalistica è causa delle lungaggini processuali; occorre sfatare il pregiudizio che sicurezza e buona amministrazione dipendano dalle leggi penali; lo spazio della pena carceraria va ridotto; il sistema penitenziario attuale è criminogeno. Affermazioni che, di fatto, sono smentite da tre decisioni contenute nel recente decreto legge varato come primo atto normativo di questo governo meloniano. Ovvero il nuovo reato di raduno pericoloso,inserito nel codice penale all’art. 434 bis.

“Ce ne era davvero bisogno, o si tratta dell’ennesima fattispecie manifesto che questa volta il neonato governo di destra-centro ha voluto subito emanare per attestare anche simbolicamente l’intento politico di interpretare in chiave iperrepressiva la tutela dell’ordine pubblico, accontentando così i settori più autoritari e punitivisti del suo elettorato di riferimento? Ma il nuovo reato è discutibilissimo pure nella strutturazione tecnica: riesibisce il volto del vecchio diritto penale di polizia, utilizzabile con una discrezionalità confinante con l’arbitrio”. Lo scrive, sempre su Il Foglio, Giovanni Fiandaca, sottolineando anche i punti più critici della norma.

Cominciando dal fatto punibile, che consiste nella invasione arbitraria di terreni o edifici, da parte di più di cinquanta persone, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine o l’incolumità o la salute pubblici. “Dal punto di vista strutturale – osserva – ci troviamo di fronte a un reato cosiddetto di pericolo concreto, dal momento che la disposizione normativa demanda al giudice, e prima ancora agli organi inquirenti, il compito di verificare nei singoli casi se il raduno avvenga – appunto – in modo pericoloso, cioè potenzialmente lesivo degli interessi collettivi predetti. Solo che il vero problema sta proprio qui: cioè nella difficoltà oggettiva di accertare di volta in volta, sulla base di criteri empirici certi, se una situazione di effettiva messa in pericolo incomba realmente, o sia ipotizzabile soltanto in astratto. Stante questa difficoltà, sussiste allora un rischio più che concreto che il nuovo reato si presti a usi polizieschi e giudiziari volti a controllare e limitare indebitamente la libertà di riunione”.

Il secondo punto discutibile riguarda il trattamento sanzionatorio: mentre la pena detentiva per gli organizzatori e promotori è prevista in misura abbastanza rigorosa in quanto fissata nello spazio da tre a sei anni (con l’aggiunta di una pecuniaria e di una confisca obbligatoria) – sottolinea Fiandaca – per i meri partecipi all’invasione è invece stabilita soltanto una diminuzione di pena (non essendone specificata l’entità, vale la regola generale di cui all’art. 65 del codice, e cioè una diminuzione non eccedente un terzo). A ben vedere, è qui che si annida una manifesta incostituzionalità alla stregua del principio di ragionevolezza proporzione: in base a tale principio, essendo sensibilmente diverso il disvalore delle rispettive di condotte dei soggetti che rivestono un ruolo apicale o quello di meri partecipanti, il corrispondente trattamento punitivo dovrebbe risultare marcatamente differenziato già nelle soglie edittali astratte: cosa che non avviene nel caso di specie, essendo (inspiegabilmente in base ai principi) la condotta di partecipazione al raduno ridotta a una sorta di circostanza attenuante. Ci sono i presupposti per una possibile declaratoria di incostituzionalità”.

E c’è anche un’altra parte contestabile del decreto legge, che concerne la decisione di ripescare, traducendola in norma vigente, la pessima riscrittura della disciplina dell’ergastolo ostativo votata da un ramo del precedente Parlamento ma poi accantonata. Con questa mossa – secondo il giornalista de Il Foglio – il nuovo governo ha, verosimilmente, mirato a un duplice obiettivo: prevenire l’imminente intervento della Corte costituzionale previsto per I’8 novembre, potenzialmente sfociante in un temuto sbilanciamento in termini garantistici a favore degli ergastolani mafiosi; lanciare un messaggio politico di maggiore prontezza ed efficacia decisionale, rispetto alla precedente legislatura, nel riaffermare le esigenze di un inflessibile contrasto alla criminalità mafiosa. Ciò fino al punto che la presidente Meloni è sembrata veicolare una falsa comunicazione pubblica: ha cioè detto di avere nella sostanza confermato l’ergastolo ostativo, evocando a sproposito la memoria di Falcone e Borsellino, mentre le cose non stanno affatto così. La soluzione normativa contenuta nel decreto, lungi dal confermare la disciplina esistente sino a oggi, apre varchi nella direzione dischiusa dalla Corte costituzionale. Si tratta però di varchi mal concepiti, insufficienti a ovviare davvero ai profili di illegittimità evidenziati dalla Consulta”.

Critiche, infine, suscita la terza decisione in tema di giustizia contenuta nel decreto legge, cioè il rinvio in blocco dell’entrata in vigore della riforma penale Cartabia. E’ già stato rilevato che questo rinvio avrebbe dovuto essere circoscritto soltanto a quelle nuove norme processuali, la cui concreta applicabilità  esige accorgimenti organizzativi. Ma perché rinviare anche l’applicazione delle nuove pene sostitutive a opera del giudice della cognizione, il cui effetto positivo sarebbe da subito consistito in un sollecito contributo a quella riduzione di spazio della pena carceraria, che, almeno in teoria, starebbe a cuore anche al nuovo Guardasigilli?

Ora, siccome a pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca, il sospetto è che la decisione di postergare la riforma Cartabia sottintenda l’obiettivo politico di modificarne alcuni contenuti normativi, riorientandoli in una dimensione più repressiva e carcerocentrica. Caro Nordio, che si fa?