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La crisi come un reality show: così la politica peggiore ha mandato a casa Draghi

«Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!». Dante sempre attuale, tristemente attuale. È una fiera della vanità pietosa quella a cui abbiamo assistito ieri. Ha ragione Antonio Polito a scrivere che «vista la qualità del gioco, forse potevamo risparmiarci i supplementari». Nella giornata di ieri abbiamo seguito al Senato l’ennesimo reality show, quella ‘cattiva’ politica che fa demagogia, quella del like facile su ‘Facebook’, dei cuoricini su ‘Instagram’, dei sondaggi da rincorrere ad ogni costo. Fabrizio Roncone sempre del «Corriere della Sera» racconta di un retroscena che la dice lunga: Rocco Casalino euforico, che guardando dal monitor Draghi scuro in volto nell’ascoltare la mediocrità degli interventi dei senatori, saltellando urlava: «Ora sono troppo felice! Troppo!». Al suo spin doctor, l’avvocato di Volturara Appula, che al contrario sudava freddo (bianco come la pochette a tre punte del suo taschino, consapevole in cuor suo di aver fatto un danno enorme al Paese), l’ex gieffino avrebbe ripetuto quasi come un disco rotto: «E-le-zio-ni! E-le-zio-ni!».

Eh già, questo volevano: mandare a casa Mario Draghi, l’uomo che l’Europa, il mondo, ci invidia. Staccare la spina al «governo dei migliori», definito così fin dall’inizio un po’ più per sfottò che per sincero rispetto. Perché ora diciamolo chiaramente nei confronti di quel «marziano» romano, che in questi mesi ha mostrato di avere un grande rispetto per le Istituzioni, si è sempre nutrita una grande invidia. Lega e M5s non l’hanno mai supportato con convinzione, ma sopportato. Draghi «marziano» sì, perché così diverso da quei personaggi, a cui la politica italiana degli ultimi tempi ci ha tristemente abituati. Draghi «The unitalian» (il «non italiano» o «italiano sui generis»), come lo chiamavano i giornalisti americani all’inizio della carriera riconoscendogli una spiccata affidabilità, puntualità e il grande senso della disciplina. Un soprannome che può valere anche oggi, ma fino ad un certo punto. Perché Mr. Mario Draghi, “The unitalian”, è quello che ha dimostrato di amare l’Italia più di quei politicanti avvolti nel tricolore. Populisti, estremisti, sovranisti. Quelli che strizzano l’occhio a Putin, che smetterebbero anche oggi stesso di armare l’Ucraina, condannando Zelensky ad una resa incondizionata. Quelli che ancora non han capito che chiudendo la porta in faccia a Draghi l’hanno sbattuta anche all’Europa, alle alleanze storiche che il governo dell’ex numero uno della Bce aveva faticosamente rinsaldato, facendo leva soprattutto sulla sua credibilità.

Draghi l’ha dimostrato fino all’ultimo di essere un «marziano», cercando di salvare il Paese dal baratro. Ha agito nell’interesse degli Italiani, prendendo anche decisioni impopolari, consapevole delle drammatiche conseguenze della guerra tra Mosca e Kiev. Ed è il «metodo Draghi» che i nostri partiti non riescono proprio a mandar giù: son sempre disponibili a baccagliare additando cosa non va, ma difettano nell’azione. All’appello finale del premier, al richiamo di responsabilità, a quel «Siete pronti», i partiti hanno risposto con un secco «no». Un rifiuto che fa capire il divario che separa la «politica del fare», quella di Draghi, e quella del «tirare a campare». Uno spettacolo desolante. Oggi nelle piazza non si parla d’altro, nei bar (fisici e virtuali, perché i social sono i nuovi punti di ritrovo) pure. Quel che conta davvero ora è trasformare la rabbia di aver perso una grande, grandissima occasione, in qualcosa di utile, di buono. In fondo al vaso c’è sempre una speranza, Pandora ce lo insegna: l’augurio è che l’eredità di Super Mario venga raccolta, non si disperda; che l’Agenda Draghi prosegua. Del resto come si può pensare che ci sia qualcuno disposto a credere alla campagna elettorale che faranno già da stasera Salvini, Conte e Meloni?