Le elezioni americane ci devono fare riflettere. Se i numeri verranno confermati da eventuali riconteggi Joe Biden avrà portato a casa un risultato straordinario. In quella che sarà ricordata come un’elezione record per numero di votanti, il candidato democratico avrà nettamente superato il Presidente uscente, Donald Trump, conquistando Stati tradizionalmente Repubblicani, come l’Arizona e la Georgia, interrompendo così la tradizione che vede tutti i presidenti, con rare eccezioni, investiti di secondo mandato. Questa elezione verrà anche ricordata come l’inizio della rivoluzione del sistema partitico a stelle e strisce. Un percorso che nella più estrema delle ipotesi potrebbe forza traghettare l’America fuori del tradizionale bipartitismo che contrappone Democratici e Repubblicani.
La oggi presunta vittoria di Biden è in gran parte dovuta certamente all’odio che metà del paese prova per Donald Trump. Ma anche al suo essere figura sostanzialmente moderata e di continuità con la presidenza Obama. Un candidato che non è politicamente nè esaltante nè innovativo, ma che è stato in grado di rassicurare l’America sul fatto che dopo la svolta populista a destra, il paese non si tufferà a capofitto nella sinistra liberale (leggi socialista) di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez. Una considerazione, sostenuta dai dati elettorali, che fa presagire l’aprirsi di una profonda crisi nel partito che fu di Kennedy e Clinton.
In queste ore, nel parapiglia del conteggio dei voti, il partito democratico si è reso infatti conto che la vittoria di Biden nasconde una bruciante sconfitta. Non solo i democratici non sono riusciti, almeno per adesso, a conquistare la maggioranza del Senato, ma hanno perso terreno nella House of Representatives. La tanto sperata “blue tide” (l’onda blu) non è avvenuta. In un balenare di accuse reciproche, i moderati puntano il dito contro i colleghi “Democratic Socialists” rei, a loro dire, di aver sbilanciato il partito su posizioni estreme. Posizioni che hanno finito paradossalmente per penalizzare proprio i candidati centristi e moderati che si sono trovati a combattere contro i repubblicani in seggi non blindati dall’utopistica narrazione “woke” delle grandi città liberal del paese. Loro, i liberals, negano ogni responsabilità e leggono la sconfitta come l’indicazione della necessità di spostarsi ancora di più a sinistra, dimostando la miopia tipica dell’integralismo marxista.
Non è certo un segreto che negli ultimi tempi il partito si sia focalizzato unicamente sulle minoranze di genere e su quelle razziali, scelte peraltro in modo molto selettivo e in base ad un insostenibile metro di purezza ideologica, perdendo contatto con la maggioranza del Paese. Accecato dalla propaganda postmodernista sfornata dalle Università degli stati costieri, il partito ha dato l’impressione di essersi dimenticato completamente della classe media e delle identità più tradizionali, come ad esempio quelle religiose, quando non ha apertamente assunto posizioni di ostilità nel loro confronti. Identità che però rappresentano oggettivamente la maggioranza dei suoi elettori.
Il 3 Novembre, questa strategia ideologia radicale non ha però pagato, se non nelle fantasie militanti di AOC e della sua “squad” che vede il mondo in bianco e nero, diviso tra buoni (loro) e cattivi (tutti gli altri). La strategia non ha pagato soprattutto perchè mentre il partito democratico virava a sinistra lasciando indietro i propri elettori, il partito repubblicano ha saputo tra mille difficoltà partorire una Buona Destra. Il Lincoln Project, di cui abbiamo ampiamente parlato in queste pagine, ha capitalizzato non solo il malcontento dei molti repubblicani scandalizzati dalla politica populista del Presidente uscente, ma anche quello di molti democratici spaventati dalla sempre più forte spinta verso l’epurazione di tutto ciò che non si conforma ad un’idea stereotipata di diversità, fatta a colpi di tasse e di improbabili e finanzialmente insostenibili programmi assistenziali.
La cosa estremamente interessante è che la fuga verso la buona destra del partito repubblicano non è limitata unicamente al classico cluster demografico del maschio bianco caucasico, ma si è osservata anche nelle donne e soprattuto nelle persone di colore. A ben vedere, anche Trump è riuscito ad intercettare un maggior numero di voti provenienti dalle periferie afro-americane e dei latinos. Ma il tycoon ci è riuscito sfruttando ancora una volta la loro frustrazione e grazie ad un fenomeno inquietante: il cospirazionismo di QAnon. Il movimento che è riuscito a far eleggere almeno un suo rappresentante nel prossimo Congresso americano.
Il recente messaggio alla Nazione, in cui Trump si autodichiara vincitore e letteralmente urla di presunti complotti e brogli già smentiti anche dagli osservatori internazionali dell’OCSE, è un chiaro segnale volto a mobilitare in suo favore, anche violentemente, questo network internazionale sempre più presente anche in Italia dove esiste grazie alla scellerata operazione populista di Meloni e Salvini, ma soprattutto nei cosiddetti movimenti identitari che li supportano. QAnon è un misto tra un gioco di ruolo e un’elaborata campagna di trolling mediatico che si oppone al presunto compolotto (apolide-pluto-giudaico-massonico) del Deep State. La paranoia la fa da padrona tra questi leoni da tastiera che annoverano tra loro purtroppo anche esponenti delle forze armate e delle forze di polizia; per loro Trump è il Messia, l’ultima speranza prima del presunto Global Reset che, grazie al COVID-19, farà cadere il mondo nelle mani della grande finanza internazionale. Sconfitto Trump, il Lincoln Project e il centro moderato che speriamo abbia la meglio nel partito democratico devono opporsi con ancora più convinzione a QAnon.
In Italia siamo ancora molto indietro e lo spettro di un governo a guida Meloni o Salvini, che sempre più si allienea alla retorica complottista, si erge minaccioso sul futuro post-pandemico del Paese. Per questo, oggi più che mai, serve una Buona Destra che si allei con il Lincoln Project e con gli altri movimenti della buona destra europea in quello che Filippo Rossi chiama Fronte Repubblicano e io, forse immodestamente, ribattezzerei il Fronte della Civilità.