La disperazione alimenta i populismi. Ed oggi è vero più che mai perché “c’è una generazione che non ha mai visto l’inflazione, non sa cosa significhi vivere con i prezzi che lievitano ogni giorno. Tutto questo crea incertezza e timore per il futuro”. A spiegarlo, in un’intervista a La Stampa, è il politologo Moisés Naím, autore di un libro su come gli autocrati hanno preso di mira l’agenda politica del XXI secolo: “The Revenge of Power”. Secondo Naím, la crisi unita alla spirale inflazionistica è una miscela esplosiva per la tenuta delle democrazie. «C’è uno scetticismo sempre più diffuso sulle opportunità che offrono i sistemi democratici – sostiene Naím-, non generano benessere, non creano crescita e lavoro, non danno possibilità di riscatto. Sono percezioni che unite alle difficoltà di portare a casa il cibo, perché iprezzi strangolano moltissime persone, sono una combinazione devastante». Per il politologo i rischi di rivolta più evidenti sono in Africa. «La tenuta del Continente è agli sgoccioli, molti fenomeni -dal debito alla crisi alimentare – si sommano. C’è inoltre la questione climatica che provoca ondate di caldo e siccità a complicare uno scenario già precario, segnato da una crescita economia bassa e dal debitoestero».
l’Fmi, tuttavia, ritiene fondamentale tenere i prezzi stabili e per questo sostiene le politiche monetariepiùrigide. Ma in questo modo il dollaro si rafforza e il debito dei Paesi più poveri in moneta Usa diventa insolvibile. Naìm spiega quindi quale strada percorrere.
«L’alternativa è il controllo dei prezzi, o la svalutazione delle monete dove si può fare. Le pressioni sui governi da parte della popolazione affinché intervengano per tenere a bada i prezzi sono assai probabili. E non solo nei Paesi in via di sviluppo. Anzi. D’altronde lo stesso Biden ha scritto una lettera ai Ceo delle compagnie energetiche per chiedere di controllare i prezzi. Certo, non è un intervento impositivo ma un segnale. In Argentina invece i controlli sono feroci, in Egitto dove il pane è una componente fondamentale della cultura e della dieta del Paese, i prezzi sono schizzati a causa della supply chain del grano compromessa. Insomma, ovunque ci sono sacche di potenziale criticità».
Ad ogni modo il politologo non vede “un piano o un’organizzazione delle proteste. C’è gente disperata, non riesce a mettere in tavola un pasto e si riversa nelle strade. In Europa – aggiunge Naím – il timore della recessione è più che altro legato alla tenuta della democrazia e alla ripresa dei cosiddetti populismi. Questa mi sembra possa intendersi come rivolta sociale».
L’Italia intanto ha perso la guida di Mario Draghi e anche a Washington si teme, pur fra mille prudenze, il riemergere dei sovranismi.
«Cè preoccupazione – ammette Naím – e un senso di frustrazione per quanto avvenuto ed è un guaio per tutti che non ci sia più Draghi. L’Italia ha un disperato bisogno di riforme istituzionali e politiche e non vedo chi possa portarle a termine. Il suo successore sarà il prodotto di accordi precari».
Quanto, infine, al timore europeo della cosiddetta «Ukraine fatigue», la stanchezza nel sostenere il contraccolpo della guerra, lo scrittore ritiene che «in Italia ci sono attori con simpatie per la Russia pronti a negoziare. La Germania si muove a rilento. Che vi siano segnali di fatica è indubbio, ma molto dipenderà dall’inverno e da come l’Europa arriverà alla sfida con le forniture di gas e greggio ridotte. Il mercato sarà abbastanza efficiente? La distribuzione e le infrastrutture riusciranno a reggere i cambiamenti? La realtà è che bisogna allestire una nuova strategia in pochi mesi e in questo clima non è facile».