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In Ucraina “si muore per vivere”: civili si battono con coraggio di altri tempi

È una realtà desolante quella fotografata da Michele Valensise sull’«HuffPost». Un collage di vite di gente comune, persone che fino alla scorsa settimana conducevano la nostra stessa routine: il lavoro, i bambini a scuola, le uscite e gli svaghi. Da giovedì gli Ucraini si son visti costretti ad imbracciare un fucile, a rifugiarsi nei sotterranei per scappare agli attacchi russi. «Per chi soffre ingiustamente e si batte con coraggio d’altri tempi occorrono rispetto profondo e solidarietà piena», scrive il diplomatico.

Puntando il dito contro i «cultori della pace facile» Valensise cita un episodio del passato:  «Nell’estate del 1995, a Tuzla, in Bosnia, una sera una granata dei cetnici fece strage a freddo di decine e decine di ragazzi in cerca di svago che affollavano una piazza e non temevano le bombe. Poco dopo, il pesante intervento armato della Nato mise fine all’assedio di Sarajevo e alla guerra. E l’eccidio di quei ragazzi fu ricordato da una lapide su cui era scritto: “Qui non si vive per vivere, non si vive per morire, qui si muore per vivere”. Non solo a Tuzla». 

Le truppe russe stanno mettendo in ginocchio Kiev, Kharkiv, Mariupol; tante le vittime civili della carneficina imposta da Putin. Chi può, scappa, lasciando tutto, anche i propri cari: mariti, padri, fratelli, impegnati in una cruenta resistenza. Del sangue sparso, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo da diciotto anni, non ha fatto menzione nel suo ultimo intervento, impegnato come era a portare avanti la sua “propaganda”.

Guerrafondai quanto presuntuosi, a detta sua, l’Europa e gli Stati Uniti, «non chi da sette giorni martella senza tregua case, scuole, ospedali del cosiddetto popolo fratello con missili e carri armati», come osserva Valensise. Lavrov, ignaro dell’imminente condanna dell’Onu, non ha fatto altro che ripetere che la Russia era tutto tranne che isolata.

Del resto non c’erano alternative al dialogo fortemente voluto dall’Europa, dall’Occidente: «È bene spingere per la trattativa, ancora meglio sarebbe garantirne la cornice necessaria. Chi mai potrebbe avviare un vero dialogo sul futuro del proprio Paese sotto la minaccia delle armi e con bombardamenti in corso? Primum vivere, l’Ucraina di Zelensky ha voglia di vivere. Le armi potranno non essere risolutive, visto l’imponente dispositivo di uomini e mezzi russi, ma tamponano l’offensiva e confortano chi ha deciso di resistere. Negare gli aiuti equivale a condannare un popolo (e non solo) a un’inaccettabile resa. L’argomento “pacifista” delle armi che alimentano la violenza anziché diminuirla deve essere bilanciato dalla esigenza imprescindibile di non essere del tutto sopraffatti. Anche se scontato, questo semplice postulato sembra sfuggire ad alcuni, più inclini al dover essere irenico che all’essere reale», le conclusioni di Valensise. Come dargli torto?