Oggi ricorre l’anniversario della scomparsa di un italiano per bene. Enzo Tortora, giornalista e conduttore TV, il cui nome purtroppo non viene ricordato solo per la serietà professionale e le grandi doti umane, ma per l’errore giudiziario clamoroso di cui fu vittima: un vero e proprio crimine che comportò lunghi mesi di detenzione e un’accusa infamante – completamente falsa – di associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti.
Il 17 giugno del 1983, sulla base delle dichiarazioni di tre discutibili pentiti di camorra, nell’ambito di una maxiretata contro la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, Enzo Tortora viene tratto in arresto a Roma, con grande pubblicità sui media. A niente servirà la smentita dello stesso Cutolo sulla partecipazione di Tortora all’organizzazione e a niente servirà la tardività e contraddittorietà delle dichiarazioni dei pentiti che lo accusarono. Sbattuto in prima pagina come un “mostro”, grazie a indagini maldestre e in assenza di riscontri oggettivi che mai furono cercati dagli inquirenti. L’unico minimo aggancio dell’inchiesta al personaggio televisivo era un’agenda trovata in una perquisizione a carico di un indagato, agenda in cui era segnato un numero di telefono con accanto un nome in corsivo che poteva essere tanto Tortora quanto Tortona (come poi si dimostrò). Nessuno si premurò mai di contattare quel numero per vedere a chi realmente appartenesse, nessuno dispose intercettazioni telefoniche per approfondire l’ipotesi di indagine.
Nulla. Fu sufficiente un tratto di penna in corsivo su un’agenda per rovinare la vita di un uomo. Sembra assurdo, e infatti, lo è. Si è dovuto aspettare una perizia grafica in corso di processo per escludere che quel nome fosse riferibile al conduttore. Poi dei contatti con il pentito Pandico che dal carcere aveva fatto pervenire alla redazione RAI un pacco di centrini fatti a mano per essere venduti a Portobello, ma che vennero smarriti dalla stessa redazione. Da lì una serie di lettere dello stesso Pandico direttamente a Tortora, che furono utilizzate come “prova” dei contatti con il clan. Ulteriori approfondimenti? Nessuno. Anzi, una serie di false dichiarazioni sempre più mirabolanti e fantasiose da parte di chi da quel momento in poi incredibilmente ricordava come Tortora si intratteneva nei corridoi RAI e vendesse lì la droga in campi di rotoli di contanti. Cose che avrebbero fatto ridere chiunque, ma che invece ingrossavano la calunnia come la classica palla di neve in discesa, e si trasformarono in breve in una valanga di fango che colpì al cuore Enzo Tortora. E con lui l’Italia per bene.
A fronte di questo nulla investigativo, furono irrogati ben sette mesi di carcerazione preventiva (carcere prima del processo), poi altri sei mesi di arresti domiciliari e poi altro ancora. Solo il 20 febbraio 1987 la Corte di Cassazione ne sancirà la definitiva assoluzione ergendolo, di fatto e suo malgrado, a simbolo vivente della malagiustizia in Italia.
Qualcuno pagò mai per questi macroscopici errori? Ovviamente no. Qualche pm fu rimosso? No. Qualche investigatore cacciato? No. Solo qualche timida ammissione di responsabilità e scuse degli investigatori (ovviamente dopo la pensione e dopo brillanti carriere), prontamente respinte al mittente dalla famiglia. Nessuna responsabilità né civile, né morale (né tantomeno penale) per un linciaggio ingiusto e immondo. E questo ci riporta all’attualità, tenuto conto che nonostante siano passati 35 anni dall’assoluzione piena, ancora si discute di responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Caro Enzo, purtroppo, dopo tanti anni, ancora non è cambiato niente. Perdonaci, se puoi!