Tutto ciò che non va fatto e che invece va fatto per costruire il nuovo soggetto politico liberale popolare riformista.
Niente fusioni a freddo: non funzionano, non hanno mai funzionato.
La storia del PD è lì a ricordarcelo.
Mettere insieme un partito ex comunista, i DS, altamente ideologizzato, e la Margherita, sinistra DC, per giunta nel punto più basso dei consensi di entrambi, è stato un vero disastro.
Il punto di massima criticità è stato ed è sempre quello: la paura per la classe dirigente del vecchio PCI di perdere la guida e il controllo della nuova aggregazione una volta creata.
I gruppi parlamentari unici – la federazione tra Italia Viva e Azione – devono essere atti simbolici per dimostrare che si fa sul serio e non devono rappresentare gli “scrigni” dentro cui salvaguardare quello che c’è oggi.
Sarebbe solo celebrare la sconfitta in anticipo, se alla fine ci fosse solo la sommatoria dell’esistente.
Le elezioni hanno dimostrato che c’è un contesto sociale favorevole alla nascita di un nuovo partito liberal-democratico, l’esperienza del Governo Draghi ha squadernato una parte di società civile da troppo tempo silente e rassegnata. Si è come risvegliata una voglia di partecipazione che bisogna assolutamente includere e valorizzare. È giunto il tempo di creare le condizioni perché gli spettatori si trasformimo in attori di un processo costituente.
Occorre però uscire dalla logica partitocratica, un cittadino ad oggi non iscritto deve percepire la netta sensazione che in ragione di questo status non gli è preclusa nessuna opportunità e ciò che conta sono le sue capacità, le sue competenze, senza nessuna pregiudiziale rispetto alle scelte politiche passate.
Questo e solo questo è ciò che significa inclusione. Questa è l’opportunità che oggi dobbiamo saper cogliere, un’occasione che non si ripresenterà tanto facilmente.
Per questo è fondamentale il partito come il luogo in cui, attraverso la partecipazione attiva, si delineano le linee e strategie politiche e si seleziona la classe dirigente.
I partiti liquidi, alla lunga, sono fallimentari, bisogna recuperare le forme della politica del ‘900, non tutto è da buttare. Sicuramente occorre una struttura inevitabilmente piramidale, ma che attraverso i congressi seleziona una classe dirigente plurale. Non è pensabile che bisogna attendere il tweet di Renzi o l’intervista di Calenda per conoscere la posizione su un determinato argomento.
Per questo la parola “territorio” non può essere uno slogan esorcizzato ogni volta che c’è un’elezione.
Il territorio rappresenta il contesto dove le persone mettono radici, lavorano, amano, dove provano sentimenti, emozioni.
Per questo il nuovo soggetto politico liberale popolare riformista non è tale se non parte dai territori, se non forma lì la sua classe dirigente, una classe dirigente che ci mette la faccia perché sente suo il significato della parola responsabilità.
Responsabilità verso la propria comunità.
Per questo occorre creare le condizioni perché si percepisca a tutti i livelli la fondamentale importanza che le adesioni arrivino dal basso con convinzione in quanto, in ognuna di esse, ci può essere un futuro dirigente.
Per questo dobbiamo dire No ai “nominati” tramite operazioni verticistiche.
Dobbiamo stare attenti che non ci sia la corsa a saltare sul carro del partito emergente, che non si imbarchi pezzi di apparati di potere obsoleti.
Nei territori ci sono tanti ragazzi con tanta voglia di crescere, hanno bisogno solo di una vera opportunità per dimostrare ciò che valgono.