Il coraggio di Yana: “Io al fronte in sedia a rotelle”

Una forza ed un coraggio straordinari emergono dalle storie che arrivano dall’Ucraina e che abbiamo raccontato in queste terribili settimane di guerra. Come quella di Yana, 28 anni, raccontata dall’inviata di Repubblica Giusi Fasano.
“Yana è su una sedia a rotelle – scrive – e, da quando i suoi orizzonti sono più bassi, lei vede più lontano che mai”. È una leggenda, la storia di Yana Zinkevyc: deputata del Parlamento ucraino per il partito d’opposizione European Solidarity e, soprattutto, fondatrice e comandante del Battaglione Medico Hospitalier, composto da circa 300 fra medici e paramedici costantemente impegnati in prima linea a «salvare le vite di tutti», come dice lei, «compresi civili
e russi, se capita». E di vite ne hanno salvate a migliaia.

Lei aveva 20 anni e stava per iscriversi alla Facoltà di medicina di Leopoli, quando la guerra in Donbass cambiò la rotta della sua vita. Decise di partire volontaria per il fronte e capì presto che i soldati, laggiù, avevano bisogno di assistenza medica più che di ogni altra cosa. Un anno dopo mise assieme i primi volontari dell’Hospitalier. Medici, paramedici, studenti di medicina, chiunque avesse qualche competenza per poter dare una mano ucraine sui campi di battaglia.
All’inizio erano poche decine, poi sempre di più fino a diventare, appunto, un battaglione vero e proprio che lavora al fianco delle forze armate ucraine sui campi di battaglia.

La comandante Zinkevych si occupa della selezione, degli addestramenti, della logistica, dell’organizzazione delle unità (sono al suo comando anche 130 donne). «Siamo una specie
di famiglia», dice divertita dal fatto che i vecchi del Battaglione chiamino «gattini» i nuovi arrivati, «ma soltanto finché non partono per il fronte».
Lei continua a muoversi fra il quartier generale di Kiev e quello di Pavlohrad, nella regione di Dnipro. La sedia a rotelle non esiste. Esiste soltanto la sua volontà. «Sono una persona forte» dice di sé, «anche se non nego che ci sono stati momenti in cui ho pensato all’eutanasia». E stato dopo l’incidente. Era dicembre del 2015, tornava alla base con i suoi uomini e c’era
ghiaccio sulla strada. Una sbandata e la sua esistenza è cambiata per sempre. Aveva
ferite così gravi che nessun medico credeva potesse salvarsi. Ma quella ragazzina inchiodata al letto riapri gli occhi e quello fu per lei il momento più disperato. Come avrebbe fatto senza le sue
gambe? E poi le dissero che non sarebbe mai stata madre.
«È stata durissima», ricorda abbassando gli occhi. Andò a curarsi in Israele dove praticamente ricostruirono la sua colonna vertebrale. Ma tornare a camminare quello no, non fu possibile. Stava per arrendersi alla disperazione quando scopri di essere incinta. «E stata mia figlia a salvarmi. È per lei che ce “ho fatta ed è per lei che c’è la faccio ogni giorno”.