di Arianne Ghersi
In un recente passato ho già avuto modo di trattare questa tematica, ma ogni dichiarazione in merito rende sempre più attuale l’argomento.
Molto importante al fine della comprensione di questo paese credo che sia una minima conoscenza storica. L’Afghanistan ha subito l’invasione russa dal 1979 al 1989. Una volta ritiratosi l’esercito sovietico, ha preso campo una sanguinosissima guerra interna tra mujaheddin. Nel 1996 fanno una prima comparsa nello scacchiere politico i talebani, che saranno tristemente noti, dopo il 2001, per l’appoggio logistico sul territorio afghano fornito all’ideatore (Osama Bin Laden) dell’attacco terroristico che sconvolse il mondo intero nel 2001: le Torri Gemelle.
Da allora sappiamo che gli Usa sono intervenuti, ma il governo da loro spalleggiato è principalmente composto da signori della guerra, una scelta davvero infelice per il popolo. Probabilmente si era pensato che, una volta cacciati i talebani – che mai sono stati sradicati, ma hanno solo cambiato modo di agire –, si sarebbe potuta ristabilire la pace. Agli occhi del mondo occidentale il fatto che le donne abbiano potuto votare (sono stati comunque segnalati numerosi casi di brogli) sembra una conquista, ma in realtà si tratta di uno specchietto per le allodole perché ancora oggi la condizione femminile è incerta.
In Afghanistan la vita di ogni persona è quasi sempre costellata da sofferenze e violenza. Gran parte del popolo vive con meno di due dollari al giorno. Si ipotizza che più dell’80% delle donne e almeno il 50% degli uomini siano analfabeti. Le strade e i sentieri sono disseminati da resti di carro armati, mine e bombe (spesso inesplose); questo aspetto rende pericolosa ogni azione quotidiana. Non bisogna neanche dimenticare la questione riguardante l’oppio: l’economia interna del paese infatti collasserebbe senza la produzione di questa droga. Tantissimi agricoltori si ritrovano a coltivare papaveri per sostenere le loro famiglie, ma non è certo raro che loro stessi ne facciano uso e si generi una dipendenza.
La storia recente del paese è caratterizzata dall’essere diventata il campo di gioco delle super potenze. L’Afghanistan ha ingenti risorse minerarie e petrolifere non ancora “messe a profitto” tanto che, ultimamente, si è profilata l’ipotesi concreta che il progetto riguardante la “Nuova Via della Seta” cinese intendesse intervenire nello scacchiere dei partner commerciali coinvolti, così da garantirsi lo sfruttamento di tali ricchezze.
Il 9 novembre 2018, nel corso di una conferenza tenutasi a Mosca, alla quale sono intervenuti influenti personalità talebane, del governo afghano e gli addetti diplomatici degli stati maggiormente interessati agli accordi (Cina, Iran, Pakistan, India, Uzbekistan, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Usa in veste di osservatore), il rappresentante dell’ala politica talebana ha richiesto come condizione per intavolare trattative con il governo centrale la liberazione dei prigionieri politici, il ritiro delle truppe straniere e il riconoscimento ufficiale di partito politico autonomo. È palese che già solo la partecipazione a questo incontro è stata una vittoria politica considerevole per il gruppo talebano in quanto ha ottenuto forte visibilità e considerazione come forza politica.
Nel gennaio 2019 si sono profilate le condizioni affinché venisse posto in essere un accordo di pace tra i talebani e il governo statunitense. I punti essenziali su cui si basa tale negoziato prevedono il ritiro delle truppe internazionali dal territorio afghano e la garanzia che i talebani si impegnino concretamente a contrastare l’influenza di Al-Qaeda. Proprio questo ultimo aspetto mi lascia titubante in quanto i talebani non presentano più la stessa identità mostrata al momento della loro ascesa e, negli anni, i loro contrasti con Al-Qaeda oserei dire si siano stemperati, in quanto le forze straniere hanno combattuto queste due entità come se fossero interscambiabili e rendendole di fatto un fronte comune alleato per contrapporsi alle ingerenze occidentali.
Inoltre i talebani stessi non sono più identificabili come una realtà unicamente afghana ma, ad oggi, si pensa possano aspirare al controllo dell’intera regione interessata; questo aspetto porta gli Stati Uniti ad avere minor incisività riguardo a eventuali concessioni politiche. Non è da dimenticare anche che, se posti in essere, questi negoziati getterebbero le basi per una reale perdita di potere da parte del governo centrale di Kabul.
Il 29 febbraio 2020 a Doha (Qatar) è stato firmato il trattato di pace per smilitarizzare il paese e porre fine alla guerra; l’accordo è stato siglato dal capo negoziatore di Washington, Zalmay Khalilzad, e dal capo politico dei talebani, Abdul Ghani Baradar. Quest’ultimo è stato recluso in un carcere del Pakistan (la detenzione è durata 8 anni) fino alla sua nomina al vertice dell’organizzazione terroristica decisa dal suo predecessore, il mawlawì Hibatullah Akhundzada, il 25 gennaio 2020. Questo dettaglio rende chiaro come il Pakistan abbia un ruolo di regolatore e mediatore all’interno del processo negoziale.
Il trattato prevede il ritiro delle truppe statunitensi nei successivi 135 giorni ed è atteso che siano rilasciati circa 5000 ribelli; questo aspetto si profila difficilmente realizzabile tenendo conto che uno stato regolare (Usa) ha preso tali accordi con una forza politica che non fa parte dell’establishment del presidente Ashraf Ghani e che, con tale configurazione, si ritrova così impegnato a rispettare un accordo senza averlo firmato.
Gli aspetti interessanti da notare sono relativi all’implicita delegittimazione del gabinetto del presidente Ashraf Ghani e il fatto che all’interno della delegazione talebana ci fosse una ristretta componente femminile. Era stato prontamente affermato che le donne non avrebbero partecipato direttamente alle trattative, ma comunque ciò dimostra una piccola apertura.
Repubblica, il 17 novembre 2020, riporta le dichiarazioni di Cristopher Miller (il segretario delle Difesa) in cui annuncia ufficialmente il ritiro di migliaia di soldati americani entro il prossimo 15 gennaio 2021. McConnell (capogruppo della maggioranza repubblicana al Senato) ha affermato: “Lo spettacolo di militari statunitensi che abbandonano infrastrutture ed equipaggiamenti, lasciando il campo in Afghanistan ai talebani e all’Isis, sarebbe trasmesso in tutto il mondo come un simbolo di sconfitta e umiliazione e una vittoria dell’estremismo islamico”.
Vorrei concludere con una riflessione che dovrebbe essere facile da comprendere a chiunque abbia una buona memoria. Il Presidente George W. Bush, il 20 novembre 2001, durante una sessione congiunta del Congresso, dichiarò: “Our enemy is a radical network of terrorists and every government that supports them. Our war on terror begins with al Qaeda, but it does not end there. It will not end until every terrorist group of global reach has been found, stopped and defeated”. “Il nostro nemico è una rete radicale di terroristi e ogni governo che li sostiene. La nostra guerra al terrore inizia con al-Qāʿida, ma non finisce lì. Non finirà fino a quando ogni gruppo terroristico di portata globale sarà trovato, fermato e sconfitto” (citazione e traduzione Wikipedia).
Trascorsi diciannove anni, dobbiamo pensare che la guerra intrapresa sia stata sbagliata e quindi sia giusto sedersi allo stesso tavolo dei Talebani perché è un modo per ridare loro dignità politica in quanto ingiustamente accusati? Oppure gli Usa hanno deciso di abbandonare l’intenzione di diffondere i principi di libertà e democrazia, consegnando l’Afghanistan (e in futuro altri paesi: l’Iraq ne è già stato un esempio) in mano a dei pericolosissimi criminali perché di fatto sconfitti?
Purtroppo solo il tempo saprà rispondere, ma ritengo che l’epilogo sia già ovvio.