Due sono le ragioni buone e una quella ottima per andare a votare i referendum sulla Giustizia e votare convintamente 5 SI. Questo dice Andrea Cangini, deputato di Forza Italia, oggi intervistato da Il Giornale.
Il primo di questi motivi è di natura generale e si riferisce alla necessità di avere un sistema giudiziario più efficace, efficiente e costituzionalmente riportato nell’alveo dei propri naturali poteri.
Da questo punto di vista, Cangini ragiona in modo comparatistico ponendo il nostro sistema a confronto con quello francese. I cugini d’oltralpe spendono il 25% in meno rispetto a noi per l’ordine giudiziario, lì i magistrati sono meno, molti meno, che da noi e guadagnano la metà.
Se così stanno le cose, verrebbe da concludere che in Italia, poiché ci sono tanti giudici, meglio pagati di quelli francesi e con un costo complessivo dell’apparto giudiziario più alto, la giustizia dovrebbe essere più efficace, veloce ed efficiente. E, invece, assolutamente no. Se prendiamo come parametro di riferimento, ad esempio, la lunghezza dei processi, ci rendiamo conto di quanto accennato sopra.
In Italia un processo civile dura in media più di 7 anni, un processo penale più di 3. In Francia si arriva a sentenza definitiva civile in meno di 2 anni e a sentenza penale in meno di 1. Ancora, prendendo a parametro il tasso di litigiosità, anche qui i dati fanno paura. A fronte dei nostri 3.789 processi per 100.000 abitanti, in Francia se ne celebra solo 1. E si potrebbe continuare…
Insomma, quella che emerge dall’analisi di Cangini è la cronaca di un disastro totale del sistema giustizia che, peraltro ci costa ogni anno 2 punti di PIL. Se è vero che imputare tutto ciò ai magistrati sarebbe ingiusto, ingeneroso e non veritiero, è altrettanto vero, che innanzi a questa Caporetto, sarebbe lecito aspettarsi da parte dei nostri togati atteggiamenti sobri e non sovraesposti. Anche qui, invece, la logica viene smentita dalla cronaca degli ultimi 30 anni.
A fronte di tale disservizio, l’ordine giudiziario, da Mani Pulite in poi, ha incrementato a dismisura il proprio potere, fino a farsi sostanzialmente contro-potere all’interno dello Stato, dichiarando una guerra carsica a Parlamento e Governo che riemerge in tutta la sua virulenza ogni volta che la classe politica tenta di por mano alla riforma della Giustizia. In quel caso, scioperi, barricate, inviti alla resistenza e quant’altro germogliano da ogni Procura d’Italia. Tale squilibrio dei poteri è patologico per una democrazia e certo non è ciò che i costituenti avevano in mente quando pensarono ai principi di indipendenza e autonomia della magistratura. Per questi motivi, come non essere d’accordo con Cangini, quando dice che la prima ragione per dire SI ai cinque quesiti referendari, è proprio quella di riportare all’interno dell’alveo costituzionale questo potere che è sostanzialmente “straripato”?
La seconda ragione – che condividiamo in pieno – è che ogni cittadino, per quanto si possa percepire lontano dal sistema giustizia, può incappare, suo malgrado negli ingranaggi giudiziari, in particolare penali. Che ciò avvenga come persona offesa da un reato, o che ciò avvenga nelle vesti di indagato/imputato, l’apparato tribunalizio è ben più vicino e quotidiano di quel che non sembra apparentemente. Ne consegue che tale sistema dovrebbe essere efficiente e al tempo stesso garantista, per consentire di avere giustizia nel rispetto dei principi dello Stato Liberale; ma anche in questo caso, la realtà è ben lontana dai buoni propositi. Senza andare a scomodare la vicenda Tortora – che pure, giustamente Cangini cita – basti pensare al numero esorbitante delle ingiuste detenzioni, delle custodie cautelari irrogate a imputati che poi si sono rivelati innocenti all’esito dei processi, per rendersi conto come invece siamo lontani dalla normalità.
L’azione penale obbligatoria in diritto è divenuta da tempo immemore, discrezionale nei fatti, tanto da indurre a dar ragione all’ex Presidente Cossiga quando – scherzosamente ma non troppo – diceva “ Tutto dipende dal piede con cui si alza la mattina un pubblico ministero”. Ciò rappresenta per i cittadini una intollerabile incognita e per i giudici un eccesso di potere che nel tempo ha letteralmente impaurito la classe politica e l’ha resa incapace di fare quei necessari passi in avanti per recuperare terreno rispetto alle invasioni di campo della magistratura.
Per Cangini, dunque, il secondo motivo per dire SI, è quello di stabilire dei confini precisi a tutela sia dei magistrati cui dover restituire quell’autorevolezza ormai persa, sia soprattutto dei cittadini, messi al riparo dalle bizzarrie umorali di qualche PM in cerca di notorietà.
Infine, accanto a queste due motivazioni che sono per così dire “buone”, Cangini, ne individua una “ottima”.
E’ una motivazione, potremmo dire, sistemica. Perché i referendum impongono una riflessione generale da parte di tutti – politica e cittadini – sulla direzione presa da decenni dalla Giustizia e un SI convinto consentirebbe una vera e propria inversione di rotta che con la Riforma Cartabia è solo accennata. Purtroppo, nessun leader politico ha il coraggio di portare in fondo una rivoluzione radicale e costituzionale schierandosi apertamente a favore dei quesiti. L’analisi sul punto è amara. Cangini non riconosce alla politica quel coraggio necessario per riappropriarsi di ciò che le è proprio . Le paure delle rappresaglie giudiziarie pesano troppo e i meccanismi emersi con lo scandalo Palamara, sono tutt’altro che sopiti ed estinti. Il ricatto è sempre dietro l’angolo. E allora, se la politica e la magistratura sono in guerra tra loro e in disequilibrio, solo il corpo elettorale con voce chiara può contribuire a spostare il baricentro della Giustizia verso orizzonti di maggiore efficacia e efficienza.
Ecco perché, in quest’ottica, la valenza del referendum assume una connotazione storica. Se il quorum dovesse essere raggiunto, nonostante i boicottaggi di parte dei partiti e dell’informazione, ciò sarebbe uno sprone eccezionale per la classe politica affinché metta mano all’intero sistema a partire dalla Cartabia, con cui, come ha ben spiegato anche Enrico Costa di Azione, i referendum non si pongono in contrasto ma anzi, a necessario completamento.
E, per dirla con Cangini, anche in caso opposto, nell’ipotesi cioè in cui non si dovesse raggiungere il quorum, il voto sarà motivo d’orgoglio personale poter dire un giorno «il 12 giugno io c’ero».