Salvini conte

Hanno trascinato Draghi in Parlamento e neppure hanno la forza di fargli lo sgambetto

L’impressione è sempre quella di vedere un film già visto, di trovarsi di fronte al solito copione. Hanno chiesto, per giorni, con insistenza, al presidente del consiglio di riferire in Parlamento sulla guerra in Ucraina, poi il tanto atteso giorno è arrivato e abbiamo assistito ad un dibattito sottotono, “svogliato” per non dire “mediocre”, come scrive Stefano Folli su «Repubblica», in un’aula non così gremita, come ci si poteva aspettare vista la delicatezza della questione.

E così per l’ennesima volta abbiamo avuto modo di toccare con mano il divario che separa il tecnico Mario Draghi e la nostra classe politica. L’ex numero uno della Bce non ha dovuto faticar molto, non ha fatto altro che ribadire quanto già espresso in conferenza stampa: l’Italia continuerà a seguire la linea dell’Unione Europea, ad essere leale nel rapporto di amicizia con gli Stati Uniti. Nel suo discorso il premier ha poi sottolineato che il nostro Paese sosterrà senza riserve l’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia e che, dulcis in fundo, continuerà ad inviare armi a Kiev.

Draghi vuole la pace (come tutti del resto) e si impegnerà perché si dia il via presto a negoziati, ma il sostegno al popolo di Zelensky non dovrà mai venir meno, perché senza le armi degli alleati, l’Ucraina sarebbe caduta dopo nemmeno tre giorni. Come Putin voleva, si aspettava, si augurava. Invece no, perché è stata proprio la coraggiosa resistenza di Kiev a far capire al mondo che «non c’è più un Golia, certamente quella che sembrava una potenza invincibile sul campo e con armi convenzionale si è dimostrata non invincibile», per usare proprio le parole del premier dopo il bilaterale con il Biden. L’economista, beninteso, userà tutte le ‘armi’ a disposizione per avviare un processo di pace, l’ha fatto capire anche oggi in visita alla scuola Dante Alighieri di Sommacampagna in Veneto: «Ho avuto più fortuna a Washington parlando con il Presidente Biden gli ho detto che forse solo da lui Putin vuol sentire una parola e gli ho detto che telefonasse a Putin. Il suggerimento ha avuto più fortuna perché il giorno dopo non lui, ma il ministro della difesa americano e quello russo si sono sentiti», ha spiegato rivolgendosi a ragazzi e ragazze.

Con la chiarezza che lo contraddistingue a quegli stessi studenti Draghi ha detto una cosa che alcuni dei nostri leader politici fanno finta di non capire, avvolgendosi dentro la bandiera della pace, per qualche punto in più nei sondaggi: «C’è differenza tra chi è attaccato e chi attacca, bisogna tenerlo in mente. Come quando uno per strada è grosso grosso e dà uno schiaffone a uno piccolo. Quello che è successo è che il piccolino adesso è più grande e si ‘ripara’ dagli schiaffi, prima di tutto perché è stato aiutato dagli amici, ma anche perché combatte e si difende per un motivo, la libertà». Perché per Draghi chi attacca, ha sempre torto. C’è sempre un aggressore, la Russia, e un aggredito, l’Ucraina. Non bisogna dimenticarlo mai.

Vogliamo tutti un “cessate il fuoco” e continuare a mandare le armi al popolo ucraino non è in contraddizione con tutto questo. Lo sa bene il leader della Lega Salvini, ma anche l’ex premier Conte. Che poi ambedue nei talk show, dalle colonne dei giornali, appaiono sempre più ‘feroci’ di come poi si presentano al momento “decisivo”. Non credo si possa dissentire con quel che scrive Folli oggi su «Repubblica»: “La questione di fondo, in chiave domestica, è tuttavia sempre la stessa. La maggioranza larga che sorregge Draghi è in grado di sopravvivere alle scosse che sembrano minacciarla? (…) Alle Camere, nel luogo tipico del confronto e del chiarimento, gli ultimatum diventano flebili voci e tutto tende a sbiadire. Così abbiamo sentito Salvini ringraziare il presidente del Consiglio ‘per le sue parole di pace’, mentre i 5S si sono affidati alla loro capogruppo per un intervento un po’ farraginoso ma certo non di rottura. La questione del voto sul governo è rinviata alle comunicazioni del premier prima del Consiglio europeo. In quella sede vedremo quanto valgono le minacce di segno, diciamo così, “pacifista”, ma in pratica intrise di spirito anti-atlantico, che mirano a logorare l’esecutivo giorno dopo giorno”. Il giornalista parla di guerra di logoramento, è chiaro. E si può asserire con altrettanta fermezza che il “generale” Draghi stia resistendo. Anzi, continua ad avere tutto sotto controllo, o quasi.

Che tale strategia di logoramento possa creare dei problemi alla corsa del Paese, già rallentato dalla pandemia prima e dalla guerra in Ucraina poi, è evidente: ce ne siamo accorti ieri sera. Ma con il Cdm convocato urgentemente sul ddl Concorrenza Draghi ha dimostrato ancora una volta di  tenere il punto, ha fatto capire che non intende intestarsi il fallimento del Pnrr. Qualcuno bisbiglia che una crisi di governo possa aprirsi da un momento all’altro, invece, quanto accaduto nelle ultime ore, sembra suggerire il contrario: le elezioni avverranno come previsto nel 2023.

E saranno un banco di prova per una classe politica che sembra sul serio non sapere che pesci prendere: la pseudo alleanza tra Pd e M5s appare indebolita dalle mosse del leader pentastellato Conte, che con la nomina di Stefania Craxi alla Commissione Esteri del Senato ha incassato una nuova sonora sconfitta; il centrodestra appare sfilacciato, Giorgia Meloni, non a torto si considera una spanna avanti rispetto a Salvini e Berlusconi, i quali restano sembra nell’ambiguo per non sbagliare e perdere il proprio elettorato. Tutti quanti, a destra e a sinistra, non hanno capito ancora che la politica estera è una cosa seria, la massima espressione della politica stessa, e farà la differenza. In cabina, nella primavera del 2023, farà la differenza.