Giustizia e obbligatorietà dell’azione penale: è ora di ascoltare la lezione di Falcone

La recente fine impietosa della inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, con tanto di emersione di un audio in cui Giovanni Falcone tesseva le lodi del capitano De Donno, le assoluzioni con formula piena nella gigantesca inchiesta su ENI e quelle in esito al crack del Monte dei Paschi di Siena, non possono che aprire una seria riflessione su come queste inchieste siano nate e siano state condotte e sulle vittime innocenti che hanno mietuto. E quindi, più in generale, sul ruolo del pubblico ministero in Italia.

Il ruolo di accusa come sosteneva Anotoine Garapon è “anonimo e terribile” perché, in un ordinamento come il nostro, in cui vige l’obbligatorietà dell’azione penale, qualsiasi impulso può dar vita alle indagini del pubblico ministero. Indagini spesso condite da sequestri, retate, perquisizione, il tutto quasi in diretta tv o comunque, immediatamente spiattellate sui media. Ciò significa vite distrutte, reputazioni al macero. E cosa accade quando a distanza di anni, a volte di decenni, si arriva all’assoluzione, magari con formula piena? Niente, non succede niente. Chi restituirà agli imputati innocenti il loro onore e anche – cosa da non trascurare – le spese legali di processi lunghi e impegnativi? Nessuno!

E che allora la riflessione si impone obbligatoria!

Il Codice di procedura penale – almeno nell’impianto base – è quello del 1989, c.d. Codice Vassalli che abrogando sostanzialmente il sistema precedente, cercava di importare in Italia il processo accusatorio (all’americana tanto per capirsi), ma non si ebbe il coraggio di portarlo fino in fondo, rinunciando alle garanzie che quel modello avrebbe richiesto in seno anche a una riforma più organica dell’ordine giudiziario.

Il sistema è dunque rimasto monco, con un pm plenipotenziario delle indagini e dell’accusa in giudizio che ne ha ridotto la funzione di terzietà pur continuando a essere ufficialmente un magistrato con carriera identica a quella di un giudice e ne ha sminato la necessaria attenzione verso le prove a discarico, che sarebbe suo dovere ricercare. Un alto magistrato dell’epoca, all’indomani dell’adozione del Codice Vassalli ebbe a definirlo espressamente “il codice dei pubblici ministeri”. Altro non c’è da aggiungere!

Invece, tema rilevante e di stretta attualità, è il fatto che di fronte a questi evidenti errori giudiziari (come altro definire gogne mediatiche finite in assoluzioni piene?) nessuno paghi. Un così grande potere senza alcuna responsabilità – parafrasando al contrario la celebre frase de l’Uomo Ragno – è veramente da Stato liberale di diritto? Sarà forse questo il bug che spinge parte della magistratura italiana a essere sorda a ogni forma di riforma che introduca un seppur minimo principio responsabilizzante? Domande legittime alla luce anche delle recenti iniziative avverse alla Riforma Cartabia, la cui risposta non può e non deve sfuggire da parte degli interessati, a beneficio dei cittadini in nome cui appartiene la sovranità.

E allora, forse per riavvolgere il filo di una riforma procedurale mai compiuta, al di là dei singoli temi del Testo Cartabia, sarebbe opportuno riconsiderare anche l’obbligatorietà dell’azione penale che ormai è divenuto un feticcio dietro cui nascondere un esercizio discrezionale e arbitrario del relativo potere che, per esempio, nei paesi anglosassoni non esiste. Lì, le indagini partono se c’è un impulso di parte e i pm, o meglio, gli avvocati dell’accusa, non possono esercitarla discrezionalmente in tempi e modi e a seconda delle convenienze, coperti formalmente dal principio dell’obbligatorietà. In sintesi, oggi l’azione penale è “de facto” discrezionale in mano al magistrato, che sceglie quali reati perseguire e quali priorità indicare nel quadro delle norme incriminatrici  e che quindi si assume un ruolo e una funzione che travalica e destabilizza il suo statuto giuridico. Come acutamente scrisse Oreste Dominioni: “diventa soggetto politico, si impone come interprete di dinamiche sociali a cui non è legittimato né attrezzato”.

E dire che su questo la CEDU si è espressa in modo molto convincente con la sentenza 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, § 128, in cui ha rilevato che “il semplice passare del tempo può nuocere all’inchiesta, ma anche compromettere definitivamente le possibilità che questa sia portata a termine” perché “il passare del tempo intacca inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove disponibili”, inoltre “l’apparenza di una mancanza di diligenza porta a dubitare della buona fede con cui vengono condotte le indagini e fa perdurare lo stato di prostrazione cui sono sottoposti i denuncianti”. E’ molto chiaro: il rischio di una obbligatorietà di diritto che diventa discrezionalità di fatto.

E invece, anche in questo caso, siamo di fronte a una totale assenza di responsabilità in caso in cui il principio non venga rispettato da parte dei pm. Nessuno paga per ritardi e omissioni. Di fronte a tali inefficienze, rischi e disfunzioni, partire da qui potrebbe essere un buon inizio. D’altra, parte, come diceva Giovanni Falcone “Non possono esistere argomenti tabù e difese quasi sacrali di istituti, come per esempio quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”. E aggiungeva “Tutto va ridiscusso. Se negli Stati Uniti la giustizia è più rapida, efficiente e attenta ai diritti della difesa”, questo dipende anche dallo “strumento fondamentale della non obbligatorietà dell’azione penale”.

Insomma, forse sarebbe il caso di “ascoltarlo”!