Oggi tutti a ossequiarlo, tutti a celebrare i trent’anni dalla scomparsa nella strage di Capaci, avvenuta il 23 maggio 1992. Ma in pochi sono davvero degni di ricordare uno dei personaggi a cui la storia recente del nostro Paese deve di più. L’ipocrisia che ancora dopo trent’anni aleggia intorno alla figura e al ricordo di Giovanni Falcone è pari solo alla grandezza di un uomo che ha dato tutto, persino la sua stessa vita, allo Stato e alla legalità. E che l’Italia in fondo ha dimostrato di non meritare davvero.
Giovanni Falcone per questo Paese è stato soprattutto una speranza. Una delle poche di poter davvero cambiare le cose in meglio. Molto più che un eroe in giacca e cravatta, ha rappresentato il volto pulito e serio di chi in ogni attimo della propria vita, fino all’ultimo istante, ha lottato contro il compromesso bastardo che corrompe la società e che ne ammorba la libertà. Eppure, a trent’anni esatti da Capaci, tra processi infiniti, dichiarazioni di pentiti, trattative Stato-Mafia, depistaggi e bugie, sulla fine tragica del magistrato, di sua moglie Francesca Morvillo, e dei tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, aleggia ancora un’aura colpevole di omertà. Perché se la verità processuale ha individuato all’interno di Cosa Nostra i mandanti e gli esecutori dell’attentato in cui trovò la morte Falcone – e dopo di lui Paolo Borsellino, il 19 luglio dello stesso anno in via D’Amelio a Palermo -, la verità sugli apparati dello Stato inevitabilmente coinvolti non è ancora stata svelata. E probabilmente mai lo sarà.
Tanto è stato celebrato da morto, Falcone, quanto è stato osteggiato, ostacolato, umiliato e ostracizzato da vivo. Nel 1988 il CSM gli negò la guida dell’Ufficio Istruzione, per cui era il candidato naturale e più adatto, e solo dopo la riforma del codice che lo aboliva divenne procuratore aggiunto. Sempre in quegli anni il CSM bocciò anche la nomina di Falcone come alto commissario per la lotta alla mafia, ritenendo il “metodo Falcone” – sistema di indagine ancora oggi tra i più utilizzati – inefficace. Emblematica, poi, la denuncia ignobile al CSM dell’allora sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che accusò il magistrato che più aveva contribuito alla lotta alla malavita organizzata di “tenere nei cassetti i fascicoli coi nomi dei mandanti politici responsabili dei più gravi delitti di mafia”. Alcuni suoi “colleghi” insinuarono persino che l’attentato fallito dell’Addaura Falcone se lo fosse organizzato da solo per farsi pubblicità. Come da solo, anzi insieme all’amico, collega e come lui martire Paolo Borsellino, fu costretto a pagare il conto del soggiorno all’Asinara, dove per settimane i due giudici si ritirarono a scrivere l’accusa del maxi processo che assestò un colpo mortale a Cosa Nostra. A dimostrazione che “il metodo Falcone” era efficace come nessun altro era mai stato prima.
La stessa magistratura e certa politica che oggi lo ricordano come un martire contribuirono, quindi, a minarne la credibilità e a dipingerlo, per la sua vicinanza all’allora ministro Claudio Martelli – che nel 1991 gli offrì un incarico al vertice del ministero dell’Interno -, come un magistrato subordinato alla politica socialista. In realtà Falcone fu sempre e solo un uomo libero al servizio esclusivo dello Stato. La sua grande visione, la sua ferma consapevolezza della necessità dell’indipendenza dei magistrati e della separazione delle loro carriere – temi oggi tornati di attualità con il referendum del 12 giugno – lo avevano già portato a prevedere il rischio di un abuso della custodia cautelare che di lì a poco avrebbe toccato il suo culmine con Tangentopoli e la stagione delle manette indiscriminate.
Eppure, nonostante la demolizione in vita e la beatificazione pelosa in morte, la lezione di Giovanni Falcone, mandato solo a combattere e a morire per mano di Cosa Nostra, è ancora viva nei cuori di chi è cresciuto nel mito della legalità e della lotta alla malavita che lui ha incarnato. Falcone vive oggi negli uomini che hanno arrestato Totò Riina, Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano in suo nome. Vive in Roberta Silveri e Daniele Iaderosa, due giovani nati nel 1992, quando la vita di Falcone è stata spezzata. Due giovani che hanno scelto di diventare commissari di polizia perché anche grazie al magistrato antimafia hanno imparato da che parte stare.
Pensando a loro forse è possibile credere che ancora ci sia una speranza. Nel segno di Giovanni Falcone, un eroe che l’Italia no, non meritava.