Non c’è dubbio che l’esito della consultazione referendaria di ieri sia stato del tutto fallimentare, ben oltre ogni peggiore aspettativa dei promotori. Pertanto porci delle domande sul come e sul perché si possa essere arrivati a un tale flop è atto doveroso, se non altro per onestà intellettuale. Partiamo dal dato più evidente: l’incapacità da parte dei leader politici di fare una campagna elettorale referendaria realmente sentita e credibile. Qualcosa è stato detto, certo, ma poco, troppo poco di fronte comunque all’importanza della materia. E se si considera che la somma delle percentuali attribuite ai partiti che si sono impegnati – il minimo sindacale – per il voto (quale che fosse) è nettamente superiore a quella dei votanti per il referendum, si capisce che questi stessi partiti non hanno saputo nemmeno mobilitare il proprio elettorato di riferimento più identitario. Figuriamoci i dubbiosi!
La sensazione è stata, sin da subito, quella di una disattenzione voluta, di fronte a un referendum dal contenuto difficile da spiegare sul quale nessuno voleva realmente metterci la faccia. Altro segno evidente dello (scarso) spessore di questa classe dirigente. Il caso più evidente è chiaramente rappresentato da Matteo Salvini, che con la sua discutibile credibilità ha contribuito non poco al flop (e temo ne pagherà le conseguenze all’interno della Lega). Non si può invocare quotidianamente legge e ordine (rigorosamente contro i poveracci) e poi improvvisarsi garantista, senza esserlo mai stato. Non si può denunciare la lobby del silenzio, e poi scomparire dalla campagna referendaria per due mesi, fulminato sulla via del “pacifismo” putiniano. Insomma, alla fine, l’esito di una battaglia è definito anche dai generali che la combattono. E Salvini non è più nemmeno un Kapitano!
Certo, con percentuali così basse, limitarsi solo a incolpare la scarsa abnegazione dei partiti o la pigrizia del marittimo concittadino, sarebbe riduttivo e suonerebbe con un alibi penoso. Una riflessione andrà fatta anche sull’utilizzo del referendum come strumento per la decisione di questioni che la gente – a torto o a ragione – ha percepito come eccessivamente tecniche e da “addetti ai lavori”. Anche qui si potrebbe aprire una inquietante parentesi sul fatto che la comunità nazionale non percepisca il valore etico e strategico del tema Giustizia, ma ce ne asterremo, ben consapevoli che l’ammissione di quesiti quali la legalizzazione della cannabis o l’eutanasia forse avrebbe dato spazio a scenari molto diversi da quelli che oggi ci troviamo a commentare. Intendiamoci, la giustizia giusta non è questione da meno, ma non è sentita e forse anche i promotori avrebbero dovuto considerare questo dato, quantomeno confrontarsi con i tecnici della materia. Le Camere Penali, ad esempio, lamentano un’assoluta mancanza di coinvolgimento da parte della categoria sugli stessi quesiti (prima volta nella storia), la cui formulazione ha contribuito alle pronunce della Corte Costituzionale proprio su quelli di maggior appeal elettorale. Anche qui, c’è da pensare!
Inoltre, la minima percentuale dei votanti segnala una disaffezione nei confronti del voto – magari da parte di chi si lamenta a ogni pie’ sospinto che “non ci fanno più votare – che certifica uno scollamento tra classe dirigente e cittadini anche con riferimento all’uso del referendum. E vien quasi da comprendere lo scoramento da parte della popolazione che tutte le volte in cui ha risposto massivamente all’appello referendario ha poi visto il Parlamento depotenziarne l’esito attraverso leggi farraginose che ne tradivano lo spirito. Per rimanere in tema di giustizia, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987 vide una larga prevalenza dei favorevoli, che però fu subito disinnescata da una legge atta a stemperare la perentorietà della modifica. Il risultato fu un pastrocchio i cui esiti scontiamo ancora oggi. Stessa cosa potremmo dire della preferenza espressa nel 1991 dai cittadini per il sistema elettorale maggioritario, ma subito temperato in sede parlamentare dal Mattarellum (con il recupero di un ¼ delle Camere con il sistema proporzionale), e si potrebbe continuare…
Questo ha determinato certamente una certa “usura” e “disillusione” dello strumento di partecipazione diretta e ne ha minato la credibilità. Se dal 1974 al 1995 le consultazioni referendarie hanno visto una soglia di partecipazione molto alta (in media il 70% degli aventi diritto), dal 1995 a oggi, il quadro si è integralmente capovolto e solo in una consultazione è stato raggiunto l’agognato quorum. Anche qui bisognerà riflettere.
Nel caso del fallimento di ieri, ha poi inciso senz’altro la scarsa informazione, con media sostanzialmente conniventi al boicottaggio della consultazione. Non so se sia il caso – come sostiene Roberto Calderoli – di parlare di complotto, ma certamente l’estrema superficialità e disinteresse, sono stati evidenti. Soltanto negli ultimi 15 giorni si è visto animarsi nella TV pubblica un minimo di dibattito sui quesiti, la cui natura tecnica poteva essere ben mediata e resa fruibile anche ai “profani del diritto”. In fondo, ogni quesito referendario è tecnico per sua natura, ma la abilità della politica e dell’informazione starebbe proprio nel rendere accessibile alla cittadinanza materie tecniche sulle quali peraltro i cittadini sono chiamati a esprimere una preferenza polare (o Si o No), e non certo un’analisi motivata della propria scelta.