“Nessuno si aspettava che l’autocrate del Cremlino lanciasse il suo esercito all’assalto dell’Ucraina e minacciasse un intervento nucleare contro tutti quelli che gli metteranno i bastoni tra le ruote. Ma Putin non procede per conto proprio. La sua voracità arriva da molto lontano. Si è creduto che con la caduta del Muro di Berlino il Vecchio Continente rinunciasse una volta per tutte all’impero. Ciò che più colpisce di questa guerra non è la follia di un uomo solo, estraniatosi dalla realtà, e non è nemmeno il ritorno della Storia: è la persistenza del destino russo. Zarismo, comunismo, putinismo: la continuità imperiale prevale su tutte le rotture. Alcuni spiriti fieri della loro imparzialità e del loro realismo sostengono che l’Occidente ha la sua parte di responsabilità nella situazione attuale. La Nato avrebbe provocato la Russia andandola a sfidare fino sotto le sue nuove frontiere. Questa tesi, però, non regge: i Paesi Baltici, la Polonia e tutti i Paesi dell’Europa centrale hanno scelto la protezione della Nato contro quello che conoscono: l’espansionismo russo”.
Lucida e inappuntabile l’analisi che il filosofo francese Alain Finkielkraut, ebreo aschenazita, figlio di una donna di Leopoli nata quando la città era sotto l’influenza polacca, fa sulle colonne de La Repubblica in merito all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.
“In una magnifica intervista con PhilipRoth, pubblicata alla metà degli anni Ottanta – ricorda ancora -, Milan Kundera affermava che ‘dopo l’invasione russa del 1968, ogni cecoslovacco ha dovuto fare i conti con l’idea che la sua nazione potesse essere spazzata via dall’Europa senza provocare più reazioni della scomparsa di 40 milioni di ucraini negli ultimi cinquant’anni nell’indifferenza generale’. È il rifiuto di una nuova cancellazione che i realisti considerano un’offesa fatta al ‘cancellatore’. La chiamano ‘umiliazione della Russia’. Nel suo saggio ‘La tragedia dell’Europa centrale, l’Occidente rapito’ sempre Milan Kundera ricorda che nel 1956, ‘nel mese di settembre, pochi minuti prima che il suo ufficio fosse devastato dall’artiglieria, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese spedì per telescrivente in tutto il mondo un messaggio disperato contro l’offensiva russa scatenata quel mattino contro Budapest’. Il testo si chiudeva con queste parole: ‘Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa’. L’Europa non è intesa come la casa di rilancio delle nazioni assassine; le nazioni vi sono difese perché prodotti della civiltà europea. La nazione è l’architettura, la poesia di alcuni luoghi, ciò di cui si prova la mancanza quando si è altrove, una lingua comune… tutte queste cose non sono la democrazia, ma quello che la rende possibile. Vi sono concetti e vi sono denominazioni. ‘Ucraina’ è un nome proprio che la Russia vuole far sparire dalla faccia della Terra”.
E sulla presunta “denazificazione dell’Ucraina”, afferma: “Del passato e del presente dell’Ucraina non si deve trascurare niente: né Holodomor, la spaventosa carestia provocata da Stalin che fece milioni di morti, né il ruolo delle parti ucraine nella soluzione finale, né l’attuale condiscendenza verso alcuni personaggi del nazionalismo antisemita. In ogni caso, io penso che rispetto all’anti-modello russo il presidente Zelensky stia guidando il suo Paese sul cammino della complessità della memoria e della sincerità democratica. A differenza dell’Occidente, scrive, per perseguire il progresso la Russia ha scelto di imboccare la strada della servitù: Putin e i suoi oligarchi non hanno bisogno del marxismo, ma neanche loro hanno preso le distanze da quella che Grossman definisce ‘la maledizione della Russia’: la connessione tra progresso e servitù della gleba”.