Effetto Draghi, l’Italia doppia la crescita Ue: ora servono più riforme e meno tasse

Il Pil italiano continua a correre svelto e lo fa sopra la media dei paesi europei. Secondo Eurostat nel secondo trimestre di quest’anno la crescita del nostro prodotto interno lordo è stata dell’1% rispetto allo 0,1% dei tre mesi precedenti. La media nella zona euro e nell’Ue è stata invece rispettivamente dello 0,6% e dello 0,3%. Il nostro Paese è riuscito a far meglio anche della Francia che ha raggiunto lo 0,5% e la Germania che mostra oggi un Pil invariato.

Meglio di noi nell’ultimo periodo solo i Paesi Bassi (+2,6%, dopo +0,5% nel primo trimestre), seguiti da Romania (+2,1% dopo il progresso dello 5,1% nel primo trimestre) e Svezia (+1,4% dopo il calo dello 0,7% nel primo trimestre). L’Italia vola in alto, spedita, come una mongolfiera, complice l’effetto Draghi, messo fuorigioco dall’irresponsabilità di alcuni leader di partito lo scorso 20 luglio. È fuori discussione l’esecutivo guidato dall’ex numero uno della Bce è stato decisivo per stimolare la crescita del Pil: da un lato attraverso l’attuazione del Pnrr, da un lato facendo leva su investimenti di sostegno ai redditi di famiglie e imprese. Draghi, l’italiano più stimato all’estero, ha fatto, come dire, da garante, portando più coesione con i partner europei. Secondo Marcello Messori, docente di economia politica dell’università Luiss, quello segnalato da Eurostat «è un dato importante e superiore alle aspettative, perché nella prima metà del 2020 l’economia italiana aveva sofferto una delle depressioni più gravi al livello internazionale tra le economie avanzate. Il forte rimbalzo c’era già stato nel 2021 e sta proseguendo, seppur a ritmo inferiore, nel 2022». In un’intervista a «Money» il professore ha spiegato anche il motivo principale di tale crescita: «È  stata la reazione positiva del settore manifatturiero e di alcuni settori del comparto dei servizi», che hanno mostrato «una forte capacità di adattamento alla situazione post-pandemica e al nuovo shock della guerra in Ucraina, soddisfacendo una domanda sempre più elevata». 

Ma in che modo mettere in cassaforte risultati così importanti? Come spiega Carlo Lottieri su «Il Giornale» è necessario innanzitutto ridurre la pressione fiscale, ma con serietà: non aggravando il debito (già ora altissimo), ma operando tagli alla spesa pubblica. «Un ridimensionamento dello Stato è indispensabile per allargare la platea di quanti sono produttivi e restringere l’area del parassitismo. In tal senso, le aspre discussioni pre-elettorali in tema di reddito di cittadinanza sono positive, ma questa misura assistenziale deve diventare il simbolo di un insieme molto più vasto di altri interventi, che danneggiano coloro che sono costretti a finanziarli, ma anche quanti ne sono formalmente beneficiari», ha rimarcato il docente e filosofo dell’Istituto Bruno Leoni. «C’è poi la necessità che ogni scelta nella giusta direzione, che lasci più soldi in tasca a chi lavora e restituisca libertà d’azione a chi ne è privo, venga resa il più possibile stabile, così che nessuno possa riportare indietro le lancette dell’orologio. In effetti, gli imprenditori hanno bisogno di spazi di mercato, ma anche e soprattutto di regole certe», ha specificato l’esperto che si è detto cauto. Difatti la situazione resta allarmante per via della guerra in Ucraina che prosegue da oltre sei mesi e dalla conseguente spaventosa crisi energetica.

Quali sono le prospettive dopo le elezioni del 25 settembre? Purtroppo le previsioni non sono così entusiasmanti: Messori ha spiegato nel corso del suo intervento a «Money» che si tornerà a una crescita più bassa della media europea nel 2023. Non solo: «Le politiche monetarie, data l’inflazione molto alta, saranno sempre meno favorevoli e questo peserà su Paesi ad alto debito pubblico come il nostro, riducendo gli spazi di politica fiscale nazionale», ha evidenziato l’esperto. Dello stesso avviso il professor Carlo Altomonte, docente di politica economica europea della Bocconi: «Dopo le elezioni il rischio è proprio che si interrompa il percorso di riforme legate al Piano di ripresa e resilienza. Non credo che, chiunque vinca tra i maggiori schieramenti, devieremo in modo consistente dalla direzione europea ed atlantica, ma piuttosto ho paura che tra possibili ritardi dovuti alla formazione dell’esecutivo e la litigiosità delle nuove forze di maggioranza, non si porti a termine quell’85% di riforme calendarizzate entro fine anno».