Il risultato del referendum è disastroso, quello delle Comunali da brividi – sempre più lontano dal 34 per cento delle Europee – e le Politiche si preannunciano un bagno di sangue. Ecco qua: sulle macerie della doppia campagna elettorale si consuma uno scontro mai così duro nel Carroccio, al di là dei tentativi di ridimensionarlo di Matteo Salvini, a cui non resta che mettersi le mani nei capelli.
Eh si, perché mentre lui punta dritto alla data del 18 settembre, i cosiddetti governisti la temono: nel giorno del ritorno a Pontida, infatti, si potrebbe consumare lo strappo con Mario Draghi, ma Giorgetti, Zaia e Fedriga non guardano di buon occhio tale ipotesi.
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Ad ogni modo il dato è evidente, fin troppo: con un trend sotto il 10 per cento a livello nazionale, tra un anno la metà della rappresentanza parlamentare tornerebbe a casa e, davanti a questo scenario l’esigenza di una scossa è avvertita da tutti ma, il modo con cui generarla, divide le due anime del partito.
«Stare al governo con il Pd è impegnativo », ha detto ieri il segretario. Che sa bene che uscire adesso significherebbe dare ragione a Giorgia Meloni, ma si è pure persuaso che il lavoro di Draghi non riscuota particolare appeal fra gli imprenditori che costituiscono lo zoccolo duro della Lega e del centrodestra.
Ecco l’esigenza di chiedere almeno un segnale di discontinuità in economia, a partire da salari e pensioni. Altrimenti, appunto, in autunno il numero uno di via Bellerio potrebbe staccare la spina.
Una mossa – scrive oggi Emanuela Lauria su Repubblica – che i governisti pensavano che Salvini avrebbe potuto fare già ieri, nel corso di un consiglio federale convocato d’urgenza. Ma che è rimasta lì, a mezz’aria, come minaccia viaggiante nelle parole del vicesegretario Lorenzo Fontana: «Se per la Lega sarà più difficile stare al governo dopo l’estate? Fosse per me – ha detto Fontana – io sono abbastanza stanco… L’obiettivo di questo governo era tentare che ci fosse il minor numero di problemi economici dopo la pandemia, era giusto provarci e sono convinto che la scelta sia stata giusta. Nel momento in cui però non vedo che i nostri cittadini hanno un riscontro positivo, la Lega risponde all’elettorato, non a qualcun altro, risponde ai cittadini». Parole pronunciate “a titolo personale” ma da uno degli uomini più vicini a Salvini.
A un leader ormai sotto assedio dentro la Lega, con il fiato sul collo dei “governisti” che invece vogliono evitare proprio la rottura con Draghi. E che ora reclamano con forza una linea univoca e coerente, senza più oscillazioni su temi centrali come la politica sanitaria o quella estera: «Perché inseguire la Meloni fuori dalla maggioranza, quello sì sarebbe un errore», dice un esponente di primo piano dell’ala istituzionale. La temperatura all’ombra del Carroccio, insomma, è sempre più alta.