Il terremoto scatenato dall’uscita di Luigi di Maio dal Movimento Cinque stelle non accenna a placarsi neanche un po’. Anzi, al contrario, le intenzioni dell’ex capo grillino di aderire in pieno all’Agenda Draghi aggiunge il suo neonato movimento a quella galassia che per semplificazione chiameremo “centrista”, già in fermento da tempo.
Invero, è l’intero arco costituzionale che sta reagendo alla deflagrante novità, sfruttandola pure per regolare conti interni, in vista delle elezioni politiche del 2023, con l’incognita “legge elettorale”.
Tanta carne al fuoco con cui tutti si debbono misurare per non arrivare impreparati a una geografia politica radicalmente e repentinamente (ma non troppo) mutata. La Lega di Salvini si trova primo partito per rappresentanza parlamentare e in maggioranza, e sa bene che il tempo delle intemperanze deve finire. Il Kapitano non ha scelte. Adesso più che mai, zitto e buono, oppure verrà commissariato. Tant’è che Zaia, Giorgetti e Fedriga, ossia il triumvirato cospirazionista, sono in stretto contatto con la base leghista, soprattutto quella produttiva, preoccupata di eventuali crisi di Governo per adesso tuttavia scongiurate.
Quel che resta del Movimento Cinque Stelle si trova a metà del guado. Da un lato, per recuperare credibilità agli occhi del proprio elettorato di riferimento dovrebbero strappare uscendo dal Governo, ma dall’altro, questa scelta sarebbe l’ennesimo atto di irresponsabilità di Giuseppe Conte. E quest’ultimo – sempre più leader a metà – pare non voler accettare la scommessa. Ma l’avvocato del popolo è un Giano bifronte: dipende da quale faccia prevarrà.
Enrico Letta, che vede sempre più sfumare la sua ipotesi di “campo largo”, deve fare i conti con alleati riottosi che però dovrà tenere uniti – almeno per ora. Da Calenda a Renzi, adesso a Di Maio. Questi protagonisti della reunion centrista a impronta draghiana mal si sopportano fra loro e ciò non è proprio un buon inizio per il progetto.
Vi è poi Giuseppe Sala, col suo neonato movimento “Italia c’è”, che molti vedono come futuro leader di questa creatura centrista. Il sindaco di Milano, il quale peraltro ha già detto che intende completare il mandato amministrativo, imprimerebbe una trazione progressista che non piace proprio ai moderati del centrodestra, a loro volta a disagio con il duo Salvini-Meloni. Il sindaco di Milano, dal canto suo, si ritaglia il ruolo di eventuale federatore, ma non di leader in campo (dato che tiene a finire il proprio mandato da sindaco di Milano).
Insomma, la cosiddetta Area Draghi per adesso è un grande e confuso laboratorio che se in Parlamento conta su una solida maggioranza, nel Paese è ancora tutta da costruire. Il diretto interessato, poi, ha più volte smentito la volontà di candidarsi nel 2023, ma si sa, in politica il domani è nemico dell’oggi e, con il difficile quadro internazionale ed economico, non è escluso che possa esser chiamato – eventualmente anche dal Quirinale – a un eventuale secondo atto di responsabilità.
E poi, c’è la questione non proprio secondaria, del consenso. Siamo sicuri che esso poi sia così appetibile dal punto di vista elettorale? Ne dubita il professor Alimonte per il quale “100 polli non fanno un polo” e rileva come il sistema elettorale attuale non favorisca formazioni di poli centristi tendenzialmente omogenei, e al contrario rischia di accentuare la competizione interna fra chi ne dovrebbe far parte. Se invece della federazione di soggetti diversi, i “centrini” scegliessero la strada della lista unica, potrebbero aumentare consenso ma a scapito della visibilità distintiva di ciascuno degli attori in campo. Da tutto questo scenario, gli unici a guadagnarci sarebbero probabilmente Carlo Calenda che in quell’area sembra essere quello con maggiore consenso individuale e – al di fuori dell’area Draghi – Giorgia Meloni che potrebbe stare semplicemente a guardare tanti piccoli “100 polli” che si mangiano fra loro. D’altra parte, se i sondaggi sono veritieri, non vi è dubbio che Meloni una parte di elettori moderati li ha conquistati. Insomma l’ipotesi del Grande Centro, oggi arricchita da Luigi Di Maio, potrebbe rivelarsi – per dirla con Claudio Cerasa – invece che un’area Draghi, un’area Tafazzi (dal mitologico personaggio che prendeva a bottigliate le proprie parti intime per il gusto di farsi del male).
Ancora una volta – mi si scuserà la ripetitività – la grande lacuna in tutto questo grande caos, è ciò che ci dovrà essere a destra di questo ipotetico centro. Cioè, par che nessuno si preoccupi con serietà di quell’area che dovrebbe situarsi a destra di Renzi e a “sinistra” di Salvini-Meloni. Mentre il centro sinistra, seppur in modo confusionario e a tratti contraddittorio si è messo in moto, nel centro-destra non si va oltre i timidi vagiti di Toti. Il tutto nel silenzio di Forza Italia in cui l’area governista e moderata manca di far sentire la propria voce.
Ecco, a destra del centro lo spazio c’è ed è necessario che qualcuno lo occupi.