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Cosa ci insegna Orwell sull’Ucraina, il falso pacifismo e l’odio verso l’Occidente

Nel maggio 1945, mentre il secondo conflitto giunge al termine, George Orwell – che pochi mesi dopo verrà consacrato nel panorama letterario europeo con la pubblicazione de La fattoria degli animali – scrive un saggio intitolato “Note sul nazionalismo” per la rivista britannica Polemic.

Orwell, più conosciuto per la sua opera letteraria (uno su tutti, la distopia di 1984) che per le sue idee politiche, fu in realtà altrettanto impegnato nella produzione di articoli e saggi a carattere politico.

Note sul nazionalismo sintetizza chiaramente il pensiero politico di Orwell, improntato da un lato a uno strenuo anti-totalitarismo e amore per la democrazia, dall’altro a una forte critica sociale, per far emergere l’ipocrisia di altri intellettuali dell’epoca.

Le parole di Orwell hanno resistito alla prova del tempo, tanto che più di 75 anni dopo, ora che la guerra è tornata sul nostro continente, sembrano non solo attuali, ma più che mai adatte a decostruire le posizioni di pacifisti e neutralisti contemporanei.

Per nazionalismo, Orwell non intende il patriottismo, ma la tendenza a “identificarsi con una unica nazione o entità”. Il nazionalismo porta, quindi, prima di tutto alla disonestà (intellettuale). Orwell fa notare che “ogni nazionalista è capace della più palese disonestà, ma allo stesso tempo – poiché consapevole di servire un qualcosa di più grande di lui– è fermamente convinto di essere nel giusto”.

Orwell si riferiva soprattutto all’intellighenzia britannica di simpatie comuniste, il cui nazionalismo era per così dire trasferito verso l’Unione Sovietica, tanto da giustificarne in ogni occasione le politiche e mire espansionistiche. Per trasferimento nazionalista, quindi, si intende il passaggio della propria lealtà nazionalista a un paese o ideologia estera, tendenza molto diffusa durante il ‘900 tra gli intellettuali europei (filo-tedeschi, filo-russi e così via).

Nell’elencazione di quest’ultima forma di nazionalismi si trova il pacifismo. Formalmente i pacifisti “si oppongono alla perdita di vite umane”, ma – continua Orwell – “esiste una parte di intellettuali pacifista la cui vera, ma nascosta, motivazione è l’odio per le democrazie occidentali”.

Orwell mette in luce come la retorica pacifista abbia costantemente due pesi e due misure, in quanto intrinsecamente faziosa: “La propaganda pacifista di solito finisce per sostenere che tutte le parti in conflitto siano ugualmente colpevoli, ma – continua lo scrittore – se uno legge attentamente gli scritti degli intellettuali pacifisti, si renderà conto che non esprimono certo uno sdegno imparziale, ma questo è diretto quasi esclusivamente contro l’Inghilterra e gli Stati Uniti”.

In sostanza dietro alla maschera di una condanna totale e generica della guerra si nasconde un sentimento anti-occidentale di fondo: “non condannano veramente la violenza come tale, ma solo la violenza usata in difesa delle nazioni occidentali”.

Certo, il contesto era diverso, ma come quegli intellettuali inglesi condannavano le operazione belliche inglesi, mentre chiudevano un occhio di fronte alle stesse condotte dall’Unione Sovietica o dalla Cina, ora c’è chi preferisce concentrarsi sull’invio delle armi da parte dell’Occidente, o sulle violazioni dei soldati ucraini, mettendole sullo stesso piano dell’invasione e dei bombardamenti russi.

Infine, e questo è il passaggio più attuale di tutto il saggio, Orwell evidenzia come la difficoltà a confermare con certezza i fatti, situazione tipica delle situazioni di guerra, in cui gli apparati di propaganda bellica rendono più complesso l’accertamento della verità, conducano all’estremizzarsi delle posizioni annebbiando la distinzione tra carnefici e vittime. I fatti vengono selezionati e manipolati, oppure ignorati, per portare acqua al proprio mulino.

“Le disgrazie che ci vengono costantemente narrate, battaglie, massacri, carestie, rivoluzioni, tendono – sottolinea Orwell – a suscitare nella persona media un senso di irrealtà”. Infatti “non c’è modo di verificare i fatti e non si è nemmeno certi che qualcosa sia effettivamente accaduto e vi sono interpretazioni molti differenti da fonti diverse”.

In questo clima di incertezza le colpe si confondono e qualunque posizione ha pari legittimità perché formalmente inattaccabile. Si vedano i sedicenti pacifisti che per l’ oggettiva difficoltà di ottenere notizie certe invitano ad ascoltare l’altra campana, e non solo quella occidentale (come sosteneva recentemente Marco Travaglio nello studio di Otto e Mezzo).

Il saggio si conclude con un invito, rivolto non certo solo ai pacifisti ma a qualunque tipo di nazionalista, di riconoscere i propri pregiudizi e la propria parzialità.

“E’ una questione, prima di tutto, di scoprire chi una sia, quali siano i propri sentimenti e mettere in conto il proprio inevitabile pregiudizio […] non puoi liberarti dei tuoi pregiudizi. Ma puoi almeno riconoscere di averli, e fare in modo che non contaminino i tuoi ragionamenti”.