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“Coca Web”, la sfida di Cangini: «Mai come oggi i giovani sono infelici»

Per la prima volta nella storia dell’umanità, le nuove generazioni mostrano un quoziente di intelligenza inferiore a quello di coloro che le hanno precedute. E mentre le facoltà mentali dei più giovani calano, accresce il loro disagio psicologico. Ansia, depressione, stress, autolesionismo e aggressività sono i demoni con cui fanno i conti ragazzi e ragazze. «Stiamo esponendo i nostri figli a delle certezze nefaste. Dipendenza e alienazione, mai come oggi i giovani sono infelici. E noi dobbiamo fare qualcosa», ha detto Andrea Cangini, ex direttore del «Resto del Carlino» e di «QN Quotidiano Nazionale», eletto nel 2018 al Senato della Repubblica, capogruppo di Forza Italia nella VII commissione Istruzione pubblica e Beni culturali. Abbiamo parlato del suo libro appena uscito «Coca Web. Una generazione da salvare» (Minerva Edizioni Bologna), un volume che mostra gli effetti disgraziati di una vita trascorsa usando social, video e chat. Una relazione la sua che è stata votata all’unanimità dalla VII Commissione del Senato. Con testi di Manfred Spitzer, Lamberto Maffei, Alessandra Venturelli, Raffaele Mantegazza, Mariangela Treglia, Pier Cesare Rivoltella, Andrea Marino, Angela Biscaldi, Paolo Moderato, Annunziata Ciardi. Non è che un primo timido passo, ma anche un avviso.

D. Come è nata l’idea di «Coca Web. Una generazione da salvare»?

«Da un’inchiesta del «New York Times» che lessi anni fa. Partiva da una domanda intelligente: che uso fanno del web i figli dei Seo, dei grandi capi delle compagnie informatiche? Quasi tutti, pensi, impongono ai propri figli dei divieti stringenti, li tengono lontani dal digitale e molti li mandano nella scuola più ambita della Silicon Valley, dove lo smartphone è bandito; in cui la lavagna è col gessetto, per capirci. Niente di digitale. Perché, come ha detto il primo presidente di Facebook Sean Parker “Solo Dio sa i danni che i social hanno creato ai nostri figli” (lui parla al passato e questo è altamente indicativo). Ecco da questa realtà ha preso il via tale inchiesta. Quando poi mi sono trovato nella funzione di senatore, capogruppo di Forza Italia in Commissione Istruzione e Formazione, ho promosso un’indagine conoscitiva sul tema, vale a dire l’impatto che il digitale ha sulla mente dei giovani. Ho chiamato i migliori neurologi, psicologi, psichiatrici, pedagogisti, grafologi. E ancora uomini delle forze dell’ordine, qualificatissimi, noti per aver studiato il fenomeno.

D: Cosa ne è venuto fuori?

«Un quadro veramente agghiacciante. Non ci sono dubbi sul fatto che da quando nel 2001 le consolle dei videogiochi sono entrati nelle stanze dei nostri figli e nipoti (e soprattutto da quando nel 2007 lo smartphone è alla loro portata) tutti i segni del malessere giovanile sono aumentati. Ansia, depressione, disturbi alimentari e autolesionismo sono in crescita esponenziali. E naturalmente durante la pandemia hanno avuto un’ulteriore recrudescenza. Il nostro termine di paragone, dal dopoguerra ad oggi, son sempre stati gli Usa. Per la prima volta ora dobbiamo guardare ad Oriente, al Giappone e alla Cina, ossia ai paesi dove l’economia digitale si è diffusa prima. E lì i dati sono spaventosi. Il 30% dei giovani è considerata dipendente da smartphone. In Cina ci sono 400 centri pubblici di disintossicazione. I giovani considerati malati sono 23 milioni. In Giappone ci sono i cosiddetti ‘hikikomori’, letteralmente “stare in disparte”. Si tratta di ragazzi che vivono nelle loro stanze. Una condizione che porta con sé danni fisici come la miopia, disturbi legati alla sedentarietà quali l’obesità e problemi alimentari. I danni ci sono soprattutto a livello celebrale. Tutte le facoltà che vanno sotto l’ombrello dell’intelligenza si stanno perdendo: la memoria, lo spirito critico, la capacità di concentrazione. Gli studi internazionali, che nel libro riporto, concordano nel dire che quanto più i giovani trascorrono tempo attaccati al telefonino, tanto più peggiora il loro rendimento scolastico, assieme alle loro facoltà celebrali».

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D: In che modo venirne a capo? Cosa possono fare le famiglie, la scuola, lo Stato?

«Bisogna intanto parlarne. Da qui la creazione della pagina web www.cocaweb.it. Non è il primo libro che scrivo, ma questo volume intendo promuoverlo più degli altri. Girando l’Italia, presentandolo. Vuole diventare un aggregatore per riflettere e approfondire il fenomeno, che è quello appunto dei danni fisici, psicologici e mentali sui più giovani. Ma più in generale di contenere lo strapotere dei giganti del web. Non era mai successo che un pugno di persone avessero un potere economico, lobbistico così smisurato e di condizionamento delle coscienze così gigantesco. Lei capisce che tutto questo non può lasciare la politica inerte. Le conseguenze sono a cavallo tra i più grandi fenomeni di cui ci stiamo occupando: la pandemia e la guerra. Ambedue un massacro per i giovani».

D: È terribile…

«Coca Web non è una forzatura, non me lo sono inventato io. I neurologi ci han spiegato che quando una persona usa un social o un videogioco a livello celebrale accade esattamente quello che avviene quando si consuma della cocaina. Cioè si secerne l’ormone che trasmette la sensazione del piacere; per questo è difficile staccare un ragazzino dallo smartphone. Il paragone con la televisione non regge, perché il cellulare non è una cosa che accendi e spegni. Ormai viene percepito come una appendice del proprio corpo ed è perennemente acceso.

D: Bisognerebbe parlarne soprattutto nelle scuole.

«Assolutamente. È un libro che è indirizzato ai giovani, ma soprattutto ai docenti e genitori. La prima cosa è parlarne. Pensare di riuscire a convincere gli adolescenti a farne un uso limitato, è illusorio. Ci sono ragazzi virtuosi, ma sono pochi. Gli adulti non sono da meno, eh. Quindi parlarne, spiegare, educare sì, è il presupposto. Ma bisogna fare di più. Come noi adulti vietiamo ai minori di fare determinate cose perché riteniamo che questi ultimi non abbiamo la maturità sufficiente, alla stessa maniera dovremmo comportarci con gli smartphone. Per è una battaglia, ormai è una battaglia».

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D: Mi ha colpito la copertina del libro. Mi pare sia appropriata, riflette perfettamente quello che è il fenomeno.

«È coerente con il tema, sì. Ti assicuro è la giusta rappresentazione del problema. Bisogna smetterla con questa retorica assurda della digitalizzazione dell’istruzione. Lo stesso ministro dell’Istruzione Bianchi, che ha partecipato ad una delle presentazioni del libro (una a Roma, l’altra a Bologna) ha ammesso che il problema esiste e che la politica lo deve affrontare. Che poi le norme già ci sono, bisogna però trovare il modo di farle rispettare. Prendi la circolare ministeriale che vieta che i cellulari entrino nelle scuole, ad esempio. Molte proposte le ho fatte, anche per ragioni di sicurezza. Ho firmato un progetto di legge che obbligherebbe chi si scrive sui social a farlo in chiaro, depositando un documento. Perché esistono leggi dello stato che ci obbligano a circolare non con il volto travisato e con la carta di identità in tasca, così dovrebbe avvenire anche in quelle che sono le nuove piazze. E poi c’è un’altra questione emblematica: una direttiva europea dice che per iscriversi ad un social è necessario avere minimo sedici anni. Da noi grazie alla spinta dei grillini questo limite è stato abbassato a tredici anni. Ciononostante, risulta che l’87% dei minori di 14 è iscritto ad un canale social. Nessuno controlla, i genitori per non avere seccature dichiarano il falso. E quel che è peggio è che non si rendono conto che così fanno del male ai loro ragazzi… Non si ha la percezione di quanto grave sia questo problema del web, questa è la verità. Dobbiamo agire, fare qualcosa. È una sfida che riguarda tutti noi».