Civili rinchiusi nei sotterranei coi cadaveri: i misfatti dei soldati di Putin

Al di là della porta c’è l’orrore. L’orrore russo, quello a chi l’esercito di Putin ha costretto i civili ucraini, inermi. Bucha, Irpin, Mariupol, e ora anche Yahidne, piccolo centro poco distante da Chernihiv, dove nello scantinato di una scuola per 28 giorni (dal 4 al 31 marzo) 360 persone, tra cui 74 bambini, sono state tenute in ostaggio dall’esercito del Cremlino, senza acqua, luce, cibo.

Dieci i morti di questa segregazione forzata. Lo svela un rapporto dell’Onu, ripreso dal giornalista della BBC Steve Rosenberg, che ha posto la domanda su queste vittime (e sui loro carnefici) direttamente al ministro degli Esteri russo, il potente Sergeij Lavrov. “Questo per voi è denazificare l’Ucraina?”. L’arroganza della risposta dà il conto di cosa sia il regime di Putin. “La Russia non è perfettamente pulita – dice Lavrov -. La Russia è quello che è. E non abbiamo vergogna di mostrare quello che siamo. È un gran peccato, ma i diplomatici internazionali, compreso l’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, il segretario generale e altri rappresentanti dell’Onu, sono sotto pressione dall’Occidente. E amplificano notizie false diffuse dall’Occidente”.

Lavrov, in sostanza, ammette che qualche colpa in fondo i russi ce l’hanno ma mai tanto grave come invece secondo lui descritto dalla propaganda occidentale anti Putin. Tuttavia i racconti dei sopravvissuti, a Yahidne come a Bucha, non sono propaganda. Purtroppo.


“Ci hanno costretto a entrare in quella stanza senza ventilazione, né servizi igienici, né luce – dicono Svitlana Baranova e Lilia Bludshaya, sopravvissute all’orrore -. Non c’era abbastanza spazio per i letti, dormivamo a terra. Gli orchi (i russi) ci aprivano la porta alle sette del mattino per farci andare in bagno. E non sempre. A volte passavano due o tre giorni senza aprire. Avevamo quattro secchi a uso ‘bagno’, ma non bastavano mai. Non c’erano cappe, c’era una puzza terribile. L’odore era così pesante che alcuni sono morti per mancanza di ossigeno”. I cadaveri dei morti venivano lasciati a marcire in mezzo ai prigionieri ancora vivi, prima che gli aguzzini, tutti giovani di Tuva, una Repubblica centromeridionale della Siberia, tra le regioni più povere della Russia, li spostassero nel locale caldaie. “Dei 360 ostaggi, 70-80 erano bambini, il più piccolo aveva 21 giorni – raccontano ancora -. Non mangiavamo, non bevevamo, i piccoli gridavano. Le madri chiedevano ai soldati russi l’acqua bollente per cucinare, ma niente”.

“Il 30 marzo abbiamo smesso di sentire le voci dei carcerieri russi, non sapevamo nulla, non sapevamo se la guerra fosse finita, se ci fosse ancora l’esercito fuori dalla porta – aggiunge la Baranova -. Così abbiamo deciso di farci una bandiera bianca con degli stracci e di raggiungere a piedi il vicino villaggio di Krasne dove abbiamo incontrato i soldati ucraini. Eravamo liberi. Eravamo felici, ci abbracciavamo, piangevamo. Lì, ho capito che ero una sopravvissuta”.