“Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare. La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino”.
Oggi più che mai, vale la pena rileggere “La Russia di Putin” (2005), scritto dalla giornalista Anna Politkovskaja uccisa nel 2006, e ripubblicato in questi giorni da Adelphi. Vale la pena perché aiuterebbe a capire lo spirito dell’insubordinazione democratica ucraina nei confronti della Russia dei primi anni 2000, quando gli ucraini si ribellarono alla falsificazione delle elezioni presidenziali in favore del candidato filorusso, Viktor Yanukovich.
Già allora Politkovskaja sottolineava il coraggio e la forza di un popolo che non voleva più sottostare all’influenza di Mosca. Il contagio della democrazia e della libertà che oggi tanto spaventa Putin, al punto di scatenare una sanguinosa guerra per fermarne la diffusione. “Anche dopo l’Urss la maggioranza di noi era convinta che l’Ucraina sarebbe rimasta una sorta di annesso e connesso, una mezza colonia. Invece è andata diversamente – scrive Politkovskaja -. Mentre l’ex madrepatria continuava a illudersi che le colonie di un tempo sarebbero rimaste al suo fianco, nelle ex colonie la gente subiva un’evoluzione straordinaria, mostrando di essere una nazione degna di questo nome”.
Rileggere oggi “La Russia di Putin”, ripubblicato da Adelphi nella bella traduzione di Claudia Zonghetti, è un passaggio necessario per capire l’attualità. Per capire da dove arriva la sete di potere dell’autarca del Cremlino, per chiedersi come ha fatto l’Occidente, o parte di esso, a sottovalutare così tanto la minaccia rappresentata dallo zar russo, la sua pericolosità, la sua spietatezza, denunciate con lucida capacità dalla giornalista uccisa. “Gli occidentali – scriveva Politkovskaja, facendo crollare già allora il castello di carta della Russia aperta a venti di democrazia – hanno una tale passione per Putin da temere di pronunciarsi contro di lui”. Parole che pesano come macigni sulle coscienze di chi ancora oggi pende dalle labbra di Putin, e di chi quel grido di allarme lo ha lasciato colpevolmente inascoltato. Prima la Cecenia, poi la Georgia, poi la Crimea e ora l’Ucraina. Leggere Politkovskaja oggi fa temere che se nessuno lo fermerà, Putin si sentirà autorizzato a sentirsi invincibile. E a spingersi ancora oltre.
Anna Politkovskaja è nata a New York nel 1958, figlia di due diplomatici sovietici di origine ucraina di stanza all’Onu. Studia giornalismo a Mosca e si laurea nel 1980. Nel 1982 inizia il suo lavoro di giornalista presso l’Izvestija, giornale moscovita che lascerà nel 1993. Dal 1994 al 1999 lavora come responsabile della Sezione Emergenze e come assistente del direttore Egor Jakovlev alla Obšcaja Gazeta, oltre a collaborare con radio e televisioni. Per la prima volta affronta la realtà cecena nel 1998 come inviata della Obšcaja Gazeta e intervista Aslan Maskhadov, da poco eletto presidente della Cecenia. Dal giugno 1999 lavora per la Novaja Gazeta.
Nello stesso periodo pubblica alcuni libri fortemente critici su Putin e sulla conduzione della guerra in Cecenia, Daghestan ed Inguscezia. Spesso per il suo impegno viene minacciata di morte, in particolare da Sergei Lapin, ufficiale di una polizia che dipende direttamente da Ministero degli Interni, tanto che nel 2001 è costretta a fuggire a Vienna. Denunciato e dopo alterni giudizi, Lapin verrà condannato definitivamente nel 2005. Numerose le visite in Cecenia della giornalista e il sostegno continuo alle famiglie i cui membri hanno subito abusi o uccisioni.
Il suo terzo libro, “Cecenia, il disonore russo”, del 2003 provoca scalpore e nel 2004, mentre si sta recando a Beslan, durante la crisi degli ostaggi, ha un malore, probabile vittima di un tentativo di avvelenamento. La denuncia della persecuzione nei suoi confronti è esplicita nel 2005 durante la conferenza di Reporter senza frontiere a Vienna. Anna verrà ritrovata morta, un colpo di pistola alla testa la uccide, il 7 ottobre 2006 nell’ascensore di casa sua a Mosca. Il mandante è tuttore sconosciuto. Il giorno dopo le è sequestrato il computer con tutto il materiale relativo all’inchiesta che stava svolgendo. Solo alcuni appunti non sequestrati verranno pubblicati sulla Novaja Gazeta il 9 ottobre. Più di mille persone partecipano ai funerali della Politkovskaja, ma nessun rappresentante del governo russo.