“Sono molti i segni di esaurimento della forma-partito. Una volta tutti i partiti avevano un radicamento nazionale; ora tre dei principali partiti hanno la loro base solo in una parte del territorio. Una volta i partiti erano pochi e coesi (le correnti ne arricchivano il pluralismo, non li dividevano); ora sono frammentati e divisi al loro interno, mentre loro frazioni sono tentate di creare sempre nuove forze politiche”. E’ questa la fotografia, nitida e lucida, scattata da Sabino Cassese nel suo editoriale sul Corriere della Sera.
Il ministro per la funzione pubblica del governo Ciampi negli anni 1993-1994, spiega – benissimo – come i leader, oggi, sembrano diventati follower, “in perenne ascolto dei sondaggi e dei risultati delle elezioni locali”, mentre un tempo dettavano la linea e i partiti avevano milioni di iscritti con basi elettorali fedeli ed un forte senso di appartenenza. “I congressi di partito – aggiunge Cassese – erano un rito rispettato; ora sono divenuti una rarità”. Lì maturavano progetti e proposte, mentre ora basta un argomento minuscolo come quello dell’inceneritore romano a infiammare le parti”. (Quanta verità).
Insomma, la domanda è la seguente: se i partiti sono un magma in continua ebollizione e dividono, invece di unire “deve concludersi che rappresentano una figura in via di estinzione?”. No, non per il giurista, che scrive: “Prima di giungere a questa drastica conclusione, proviamo a cercare la spiegazione di questa disarticolazione del sistema politico istituzionale”. Che deriva dalla “realizzazione/esaurimento delle tre grandi tradizioni che hanno dominato la storia novecentesca della società italiana, quella liberale, quella popolare e quella socialista”.
I protagonisti di queste tre grandi tradizioni compirono azioni stupende, opere bellissime – ricorda Cassese – e ci hanno trasmesso un ricco tesoro di forme di pensiero, di idealità, di istituzioni, che si sono realizzate, talora in modo incompleto, talora in modo contraddittorio, per cui oggi, parafrasando una nota frase di Benedetto Croce, non possiamo non dirci tutti liberali, popolari, socialisti. Questo perché nessuno può rifiutare l’idea che l’individuo rappresenti un valore autonomo rispetto allo Stato, la cui azione va limitata, per assicurare libertà come quella di parola, di stampa e di associazione, il rispetto del diritto, l’indipendenza dei giudici, l’economia di mercato. “Perché nessuno può rifiutare di riconoscere il ruolo della famiglia, delle autonomie territoriali e del decentramento, della libertà di religione e di quella di insegnamento, il posto della piccola proprietà, della piccola e media impresa e dei corpi e delle comunità intermedie. Perché nessuno può rifiutare l’idea che la Repubblica debba assicurare l’eguaglianza sostanziale, in primo luogo garantendo a tutti assistenza sanitaria, istruzione, lavoro e protezione sociale”.
Ma, adesso “che abbiamo fatto un lungo percorso, guidati da questi tre grandi movimenti ideali, che nel corso della storia novecentesca hanno anche trovato il modo di confluire su obiettivi comuni (distribuendo a tutti non bonus o redditi variamente denominati, ma beni più consistenti come istruzione, sanità, pensioni, mentre assicuravano libertà e rispetto per le autonomie e i corpi intermedi), non sappiamo più dove andare, e quindi la politica è divenuta scaramuccia quotidiana. Chi ci ha preceduto ha compiuto pacifiche rivoluzioni, per le quali valori di libertà, solidarietà, fratellanza sono scritti persino nella Costituzione, in quella sua prima parte che nessuno ha mai posto in dubbio in più di un settantennio”.
Perché oggi nascono nuovi bisogni, che vanno interpretati e sui quali la politica deve riflettere e formulare soluzioni, aggregare consensi, stabilire alleanze. Ed è proprio questo – per Cassese – che manca alla forma partito di oggi: vigore intellettuale nell’interpretare bisogni e sentimenti, e poi capacità di costruire intorno ad essi programmi e progetti, preparandosi a gestirli”.
Ma “dei partiti c’è bisogno, perché non vi è altro modo con il quale la società possa dialogare con il governo, la piazza farsi ascoltare dal palazzo”. Solo che devono tornare ad essere “forze vive, uscire dagli schemi consueti e interrogare la nuova realtà, intercettare una domanda di politica tanto viva quanto insoddisfatta, selezionare nuovo personale, fare programmi, individuare – conclude e auspica Cassese – chi sappia tradurli in realtà”.