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Caporetto 5 Stelle, adesso Conte dà la colpa a Draghi e pensa ad una lista tutta sua

Facce lunghe in Via Campo Marzio a Roma, sede del Movimento 5 Stelle. La debacle elettorale seppur prevedibile e prevista, è di quelle che fanno male al partito di Grillo, sconfitto sonoramente anche nella sua città.

Percentuali da schedina del Totocalcio un po’ ovunque, e fallimento completo in città che per i pentastellati erano veri e propri simboli, prima fra tutte, appunto Genova, poi Taranto e Palermo, dove Giuseppe Conte si era speso parecchio a sostegno dei candidati del Movimento.
In un partito normale, un risultato negativo di tale portata provocherebbe dimissioni di massa della classe dirigente o, quantomeno, condurrebbe a un accenno di autocritica o di quel che ai tempi si chiamava esame di coscienza. Ma i vertici del M5S proprio non resistono alla tentazione di cercare alibi per sfuggire alle proprie evidenti responsabilità e buttano la palla in tribuna. Dal “ci danno per morti, ma risorgeremo” al dare la colpa all’esperienza di governo, la strategia è chiara: slogan e declinazione di responsabilità.

L’Avvocato del popolo ha definito “non soddisfacente”, ( poco prima, in un lampo di sincerità, “deludente”) il risultato elettorale, ma ha subito dato la colpa ad altro, appunto all’esperienza governativa con Mario Draghi. Analisi un po’ estemporanea e piuttosto ingenerosa, visto che a quel tavolo il Movimento siede da partito di maggioranza relativa e può coprire con il prestigio e la capacità del premier la propria sostanziale insussistenza.

E, in un momento storico complesso quale quello che stiamo vivendo sia sul fronte interno che su quello internazionale, poter contare su un premier di incontestata qualità, competenza e prestigio non è cosa da poco. Immaginiamo se l’emergenza bellica e le ricadute economiche e sociale le dovesse gestire il duo Conte-Salvini. Insomma, c’è da tremare! Eppure, oggi la ragione stessa della (ancora per poco) esistenza del Movimento ormai è proprio legata all’esperienza di questo Governo di unità quasi-nazionale.

Peraltro, al netto dei proclami della prima ora, stare al Governo è diventata la ragion d’essere del partito grillino. Da antisistema, questo è diventato il più “sistemato” di tutto il Parlamento, unica forza sempre al Governo nella legislatura, cambiando maggioranza come si cambiano i vestiti al mattino.

Eppure la colpa della Caporetto elettorale è di Draghi. Si certo come no!
E a Palermo? Altra roccaforte della speranza pentastellata. Colpa della sofferenza sociale e della mafia. Si certo, come no!

Sarebbe magari il caso di dire che dal 2018 non ne hanno azzeccata una che sia una?
Sarebbe anche il caso di riconoscere che un movimento che nasce di lotta e di protesta, contro tutti e al grido del “Vaffa” non può reggere la prova del Governo, perché governare significa “progettare per ..” non “sbraitare contro”. Perciò il fallimento è strutturale, implicito nella loro stessa “mission” come direbbero i top manager. Senza una maturazione politica – anche a costo di dolorosi cambiamenti – questo fallimento di oggi rischia di perpetuarsi all’infinito asintotico fino a scomparsa. Forse Conte dovrebbe porsi questo di problema invece che ribaltare il tavolo e urlare alla luna.

E invece, invece di innescare un circolo virtuoso di autocritica e cambio di strategia, ricompare sottobanco l’ipotesi di una lista personale dell’ex premier che smentisce, ma non in modo non proprio convincente. Per ora nessuno parla di scissione, ma il tema è sul tavolo da tempo. E poi, è indubbio che il Movimento ormai è diviso almeno in tre parti. Esiste un’ala governista incarnata da Luigi di Maio (che è in missione diplomatica in Etiopia e al quale quindi è risparmiata la dolente analisi del risultato), c’è un’ala contiana che, appunto, ancora deve decidere cosa fare da grande, e una parte di deputati e senatori sensibili al fascino (si fa per dire!) barricadero del Dibba.

Infine su tutti, la tagliola del taglio dei parlamentari e (per molti) la fine del secondo mandato. Staremo a vedere, ma di certo, dare la colpa all’esperienza di partecipazione alla maggioranza è una facile via di fuga senza alcuna logica o senso.

Il Partito Democratico, da par suo, non sa che posizione prendere. Tanto per cambiare! Seppur in crescita, infatti, sconta la defaillance dell’alleato. Alleato dal quale, tuttavia, Enrico Letta non intende distaccarsi nemmeno un po’, con il rischio, prima o poi, di venir trascinato a fondo. Se è vero infatti che i democratici hanno retto l’urto (a Settembre era andata molto meglio), non possono continuare a sottovalutare quello che accadrà all’interno del campo alleato. Vabbene non infierire, ma riogranizzare il campo sarebbe d’uopo se non altro per scongiurare dissidi interni, che, come si sa, nel PD non mancano mai. E infatti, alcuni sono già in fermento. Base riformista – gli ex (non troppo ex) renziani – già guardano a Calenda come possibile interlocutore, ma trovano lo stop del Segretario attendista.
Di questo passo, caro Enrico, stai pur sereno, che il tuo campo largo rischia di restringersi sempre di più fino a diventare un viottolo.