Comunque vada a finire Vladimir Putin ha già perso. Perché quella sul piano sociale e culturale è una guerra, di respiro in questo caso planetario, che il nuovo zar non può vincere. Perché rappresenta una recrudescenza totalitaristica, e neppure in versione 4.0, che la storia e l’evoluzione della società hanno già sconfitto. Il putinismo e quello che rappresenta scompariranno insieme al presidente russo, non esiste altro epilogo. Il perché lo spiega bene il politologo Alessandro Campi sulle colonne de “Il Messaggero”.
Campi fa un’analisi sociologica e fenomenologica del presidente russo, mettendolo a confronto con l’altro leader in campo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Una figura divenuta mitologica in venti giorni, metà comico e metà soldato, candidato ad essere un’icona planetaria di coraggio e resilienza anche se alla fine i sicari dello zar riusciranno nella loro missione di eliminarlo. Lo stile di Putin e quello di Zelensky, il modo in cui esercitano (e interpretano) il loro ruolo, come comunicano, sono la linea di confine che, al di là dei risultati di questa guerra, permetteranno all’ex comico ucraino di uscirne in ogni caso vincitore. Perché la contrapposizione, su cui il mondo intero si è già schierato, è tra la concezione della politica assolutistica e quella democratica. “Zelensky, un comico arrivato alla guida del suo paese in virtù di un paradossale cortocircuito tra finzione e realtà (un comico che diventa presidente avendo interpretato da comico il ruolo di presidente) sembra davvero provenire da un altro mondo: quello della post-modernità digitale, della politica-spettacolo, della comunicazione just-in-time, del potere non come privilegio riservato ai predestinati dalla storia ma come occasione che la cronaca e il caso possono davvero offrire a tutti – scrive Campi -.
“Con le sue continue incursioni in rete manda messaggi rassicuranti ai suoi concittadini, sprona il mondo affinché aiuti l’Ucraina a difendersi, tiene discorsi appassionati e infuocati, fa controinformazione, quando serve riesce persino ad essere divertente e ironico pur nella drammaticità del momento – aggiunge ancora -. Paradossalmente tra l’autocrate di professione e il dilettante del potere, quello che appare più sicuro di sé e della causa che difende sembra proprio quest’ultimo. A Zelensky, con un colpo mediatico straordinario, è poi bastato indossare una maglietta militare per trasmettere al mondo questo semplice messaggio: Putin, con le sue ambizioni da zar redivivo, è uno che chiuso in qualche stanza del Cremlino, preso dai suoi deliri di potenza, manda gli altri a morire e a uccidere, mentre io, uomo qualunque, presidente per caso, sono qui in prima linea a difendere la mia nazione, la mia città, la mia famiglia a costo della morte. Un messaggio di devastante efficacia. Una sconfitta politico-simbolico per la Russia anche nel caso di una sua eventuale vittoria militare”.
Vittoria che non basterebbe però a nascondere il fallimento, culturale e politico, che Putin, al potere dal 1999, vorrebbe ora compensare con una guerra di conquista. Senza accorgersi che il mondo non è più quello diviso dalla cortina di ferro. “Ricatto energetico, minaccia militare, repressione interna del dissenso, cleptomania di Stato, frustrante evocazione di un passato di grandezza finito per l’inganno e la manipolazione come strumento ordinario di governo – conclude Campi -: il putinismo, che con quest’aggressione armata probabilmente è arrivato al suo tragico colpo di coda, questo lascerà come sua eredità politica. Meno, in ogni caso, di quel che lascerà Zelensky al suo paese: un esempio, a mezzo Instagram, di coraggio e amor di patria”.