Calenda: leader di chi e di che cosa?

La questione del salario minimo va oltre il problema stesso. Qui siamo davanti a una forte crisi di identità di un leader: Calenda e di un partito che, al di là di campagne congressuali, rimane un partito personale: Azione e come tale è conseguentemente privo di una sua identità.
Il pluralismo culturale interno è una ricchezza finché c’è un leader che riesce a fare sintesi non sulla base di compromessi interni ma delineando una prospettiva politica futura fatta di un mix tra concretezza propositiva e idealità, valori che inevitabilmente si devono riflettere nella prima.
La politica non è solo l’arte o la scienza, o entrambe due di far accadere le cose, la politica ha il dovere di definire la “qualità” delle cose.

È passato ormai un anno da quella perentoria affermazione di costruire il polo liberale che tante speranze aveva suscitato e anche sofferte come la nostra storia dimostra, per poi ritrovarsi con un niente di fatto. Non è solo l’implosione del Terzo Polo a causa dell’ego di due persone, è la mancanza della prospettiva futura e che porta come conseguenza negativa a rifugiarsi, esaltandolo, nel primo orticello dimostrando di non avere la benché minima idea di come trasformare quella speranza in politica concreta.

Tutto ciò è la palese subalternità a quel bipolarismo bipopulista tanto odiato ma da cui non si riesce di spezzare le catene che legano ad esso. Avere come unico discrimine la presenza o meno del M5S è solo la dimostrazione plastica che quelle catene non si vogliono spezzare.
Essere liberali significa essere alternativi non solo alla “destra” sovranista ma anche alla sinistra socialdemocratica e definire il PD un partito socialdemocratico occorre un gigantesco sforzo di fantasia. Il fatto che tanti di Azione e praticamente tutti di Italia Viva compreso i due leader vengono da quella storia non fa del PD una buona idea venuta però male.

Il PD è stato ed è una pessima idea che ha perpetuato nel tempo la cultura cattocomunista in chiave antisocialista. Questa è la principale catena da spezzare, senza questo atto fondamentale di posizionamento non ha senso politico parlare di polo liberale, continuando quell’opportunismo politico che ha reso il termine liberale un vezzo per cercare consenso elettorale, nulla più, con troppi sedicenti liberali in giro che passano con disinvoltura dal campo liberale a quello socialista e viceversa. Questo condanna il Paese alla deriva populista sovranista di Meloni e Schlein, comparse in commedia elevate al ruolo di attrici per assenza di una controparte e che si spartiscono il consenso effimero espresso da una minoranza, sempre più minoranza, di elettori.

La rivoluzione liberale: da utopia a necessità nella politica italiana

All’assemblea nazionale di fine mese di Azione il problema di definire una identità liberale ( mi verrebbe da dire di destra liberale ma l’intelligenza umana a dei limiti) va posto.
Come è possibile ripartire anche da una federazione se uno dei soggetti cardine non riesce ad uscire da questa ambiguità latente di un anti populismo populista. Come è possibile essere attrattivi verso l’elettorato del non voto senza un’identità precisa che da un riferimento politico culturale anche a chi ad essa, legittimamente, si oppone. Come è possibile essere attrattivi verso l’elettorato di Forza Italia che al di là di Berlusconi ha creduto nella rivoluzione liberale da lui promessa anche se non realizzata.

Confluire in Azione è stata una scelta indubbiamente complessa, necessaria per continuare in altre forme la battaglia culturale di affermare il valore di Buona Destra ma appunto per questo abbiamo la responsabilità e il dovere verso noi stessi di dire cose anche scomode.