Edmondo Bruti Liberati, un magistrato per bene. Schierato ma non fazioso, già Presidente dell’ANM in anni difficili di conflitto feroce tra toghe e politica, ha interpretato il suo ruolo ricercando quell’equilibrio necessario tra funzione giudiziaria e carica rappresentativa (è stato Segretario di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra delle toghe).
Oramai in pensione, godendo pertanto di un osservatorio privilegiato ed emotivamente “freddo”, si sofferma, in una lunga intervista al Foglio, ad analizzare il difficile momento che la magistratura sta vivendo (tanto per cambiare!) fra scioperi proclamati e riforme di sistema.
E lo fa – da par suo – con eleganza e stile, fuggendo da quella sguaiatezza mediatica e quella bulimia oltranzista di tanti suoi colleghi attualmente in prima linea.
L’occasione è una chiacchierata relativa al suo ultimo libro “Delitti in Prima pagina – La Giustizia nella società dell’informazione” che dal tema del difficile rapporto tra i due “poteri” presto si estende a una valutazione diacronica della salute della giustizia, a partire dall’inchiesta Mani Pulite di cui ricorre il trentennale, fino alla Riforma Cartabia.
Difficile stabilire – per Bruti Liberati – un rapporto corretto fra magistratura e informazione proprio perché spesso le inchieste hanno ad oggetto fatti di interesse pubblico e che quindi meritano di essere conosciute. Il come farle conoscere, è il vero punto dolens del sistema in quanto la sovraesposizione mediatica di certi PM è divenuta eccessiva e, nel tempo, ha ridotto il principio costituzionale di non colpevolezza dell’indagato a mero simulacro formale. Certo, il rispetto per la presunzione di innocenza è fondamentale secondo Bruti Liberati ma al tempo stesso, è complicato stabilirne il rispetto per decreto mediante una incisiva limitazione della comunicazione esterna delle procure.
A maggior ragione, in un contesto – quello italiano – in cui da trent’anni almeno vige quello che Luigi di Gregorio chiama magistralmente “fattore M”, intendendosi per tale il legame fra certe procure (M di magistrato) e certa informazione (M di media), più abili nel costruire processi mediatici con condanna annessa, che a celebrare e dar conto di quelli giudiziari, il cui esito spesso è un dettaglio di contorno.
E l’ex magistrato non nasconde le responsabilità proprie della magistratura – soprattutto requirente – in tutto ciò, individuando proprio in Mani Pulite il principio di quell’attitudine al tifo “che fa male alla magistratura più dei denigratori”. Quell’inchiesta, con la spettacolarizzazione dei vecchi “avvisi di garanzia” ha mediaticamente trasformato l’istituto in questione da strumento di tutela dell’indagato (che da quel momento poteva iniziare a espletare alcune funzioni difensive) a sentenza ante processum, secondo la (folle) massima popolare per cui “se lo hanno indagato, qualcosa avrà fatto di sicuro”, tanto in voga nell’opinione pubblica. Il che con evidenti ripercussioni anche tragiche sugli stessi indagati-imputati talvolta suicidatisi per l’onta (vedasi il caso Cagliari).
Bruti Liberati dà conto – ma lo avevamo molto più modestamente sottolineato pure noi da queste colonne – di come si sia andata diffondendo da quel momento in poi, e grazie a all’eccesso di protagonismo mediatico dei vari Di Pietro, Davigo ecc, l’immagine del PM eroe a prescindere che combatte senza macchia contro la criminalità, soprattutto organizzata e ancor meglio se a caccia di colletti bianchi. Si è cioè generalizzata una visone falsata per cui chi indaga ha ragione perché è il “buono” contro il “cattivo” (non importa se il cattivo è Totò Riina o un ladro di polli) e l’informazione si è saldata con questa equazione sponsorizzandone la narrazione presuntivamente colpevolista, e abdicando alla ricerca della verità in nome della guerra santa al crimine.
Il problema è che poi oltre all’opinione pubblica e l’informazione, a tal massima vi si è adeguata pure la legislazione, estendendo istituti emergenziali anche in casi non emergenziali, creando ancora più confusione e limitazione delle garanzie.
No, Bruti Liberati non è clemente con quella stagione (al netto della corruzione esistente), di cui contesta l’abuso della custodia cautelare in carcere e la velleità di certa magistratura di riscrivere la storia – anche morale – di questo paese (spesso, nonostante una verità processuale del tutto contraria alle tesi accusatorie). V’è da riflettere sulle sue parole, e non solo in prospettiva storica.
Fin qui il passato! Ma l’ex magistrato non si accontenta di fare opera di ricostruzione (che peraltro sa far molto bene, con continui riferimenti comparatistici al sistema francese), ma entra, seppur in punta di piedi, anche nell’attualità criticando la riforma Cartabia senza tuttavia buttarla in caciara, e anzi, aprendo a spunti che, se ripresi, potrebbe effettivamente portare giovamento anche al testo in discussione.
Si schiera contro la valutazione-performance perché concederebbe troppo alla statistica, ma riconosce una esigenza di migliorare la funzionalità dei tribunali e delle procure modificando il sistema attuale di valutazione evidentemente non in grado di assicurare una qualità diffusa. Cauto sul sistema elettorale del CSM introdotto dalla riforma Cartabia di cui riconosce la natura apprezzabilmente compromissoria, anche se Bruti sarebbe un proporzionalista puro.
Rivoluzionaria – mi si perdoni l’eccesso – la posizione sull’ergastolo ostativo (non previsto dalla Cartabia) dove Bruti Liberati apre con cautela alla sua abolizione, seppur consapevole dei rischi; mentre invece completamente contrario alla responsabilità civile dei magistrati (tutto non si può avere!), ma, quantomeno, sulla base di argomentazioni che hanno una loro logica e che meriterebbero di entrare nel dibattito sul tema.
Questioni tecniche ovviamente su cui non è il caso di soffermarsi (su tante, già lo abbiam fatto altrove), ma quel che conta è l’approccio ponderato e non ideologico dell’ex magistrato che potrebbe aprire una breccia nei muri contrapposti che di sicuro non giovano a una Giustizia intesa come bene comune nell’interesse dei cittadini e che non merita di essere usata quale clava di un potere nei confronti dell’altro.